Nell’Italia del No, dalla Tav al Tap, dall’alta velocità Torino-Lione al gasdotto trans-adriatico in Puglia, dalle Olimpiadi fino ai Mondiali di rugby, l’annosa polemica che riguarda il Ponte sullo Stretto di Messina diventa oggi la metafora di un Paese che non vuol cambiare né progredire. E perciò rinuncia a tutto, ritirandosi istintivamente nelle sue incertezze e nelle sue inquietudini. Rinuncia al futuro e allo sviluppo. Rinuncia a crescere e a cambiare.
È bastato che il presidente del Consiglio si dichiarasse favorevole al progetto sul Ponte per scatenare la consueta rissa ideologica su un’opera di cui si discute ormai dai tempi dell’Unità d’Italia. «Per me, la priorità è la ricostruzione del dopo-terremoto», ha proclamato la sindaca grillina di Roma, Virginia Raggi, sventolando il vessillo del populismo e della demagogia, come se una questione escludesse l’altra. Mentre un comico che fa politica ha ironizzato in televisione sul fatto che Silvio Berlusconi dovrebbe denunciare Matteo Renzi per plagio, quasi che il copyright del Ponte fosse un’esclusiva del Cavaliere.
Se è consentita un’autocitazione, il 12 febbraio 1998 – in pieno governo Prodi – scrissi un articolo in prima pagina su Repubblica, analizzando i pro e i contro del progetto dopo l’approvazione da parte del Consiglio superiore dei Lavori pubblici. Il titolo all’interno recitava: «Quel Ponte della discordia bloccato dall’immobilismo». Sono passati quasi vent’anni e siamo fermi ancora allo stesso punto, divisi tra guelfi e ghibellini, favorevoli e contrari. Più per partito preso, per motivi di appartenenza o di militanza, che per conoscenza diretta ed effettiva convinzione.
Il primo punto riguarda i costi. E qui è assolutamente necessario fare chiarezza. Vent’anni fa, si parlava di circa 7.200 miliardi di lire, cioè 5.100 per la costruzione del ponte e 2.100 per gli allacciamenti stradali e ferroviari, con un cantiere che in otto anni avrebbe occupato 4.600 persone a cui se ne sarebbero aggiunte altre cinquecento per la gestione e manutenzione. Ma lo Stato avrebbe dovuto sostenere soltanto le spese per i collegamenti a terra, mentre la realizzazione dell’opera sarebbe stata finanziata dalla società privata che si fosse aggiudicata la concessione. Ora il capo del governo parla di 3.000 miliardi di euro e addirittura di 100.000 posti di lavoro. Per superare le riserve e le resistenze del “Partito del No”, occorrerebbe dunque un piano più preciso e dettagliato, convalidato magari da una commissione di esperti qualificati e autorevoli.
Poi viene l’impatto ambientale. Secondo il progetto originario, il Ponte dovrebbe essere lungo 3,3 chilometri con un’unica campata sospesa a 70 metri d’altezza, 12 corsie per gli automezzi e due linee ferroviarie. Non sono previsti, dunque, pilastri in mare e anche dal punto di vista estetico il risultato sarebbe spettacolare: insomma, l’ottava meraviglia del mondo. Più che danneggiare l’ambiente, quindi, il Ponte potrebbe arricchirlo e valorizzarlo ulteriormente, come accade già a San Francisco, a Lisbona e in tante situazioni analoghe.
Un altro aspetto controverso riguarda il rischio sismico, in una zona particolarmente soggetta al pericolo di terremoti. Anche qui, com’è ovvio, bisogna rimettersi al parere dei tecnici e degli esperti. Ma il progetto prevede la realizzazione del Ponte con moderni requisiti anti-sismici che assicurerebbero la sua solidità e con caratteristiche di elasticità che ne garantirebbero la resistenza anche ai venti superiori ai 200 chilometri all’ora, con una capacità di oscillazione teorica fino a nove metri.
E infine, la minaccia della mafia. Da una parte, si sostiene che il mega-appalto scatenerà gli appetiti di Cosa nostra; dall’altra, si prevede che la Piovra allungherà i suoi tentacoli sulla gestione del Ponte. Ma qui si può agevolmente replicare che con questa logica in Sicilia e in Calabria non si dovrebbe più costruire alcunché. E in ogni caso, spetta allo Stato – attraverso le forze dell’ordine, la magistratura, la Direzione nazionale antimafia e l’Autorità anticorruzione – vigilare perché tutto ciò non accada.
Sull’altro piatto della bilancia, a parte gli elementi oggettivi di valutazione, c’è il fascino e l’attrattiva di una grande opera d’ingegneria. E c’è soprattutto il sogno collettivo della ricomposizione di una frattura geografica e territoriale, ma anche sociale, economica, psicologica, per collegare la Sicilia all’Italia: attraverso il Ponte, basterebbero tre minuti di orologio per passare lo Stretto, “unificando” di fatto Messina e Reggio Calabria in una grande città di oltre mezzo milione di abitanti. Ne trarrebbe beneficio l’isola insieme a tutto il Mezzogiorno, perché il Ponte può rappresentare un importante volano turtistico e commerciale anche per le altre regioni meridionali.
Alla fine, si può propendere liberamente per il sì o per il no, magari sulla base di maggiori approfondimenti. Ma non serve ingaggiare una “guerra di religione”, come se i fautori del Ponte fossero tutti speculatori o compicli della mafia e gli oppositori invece militanti di un fantomatico “esercito della salvezza”. È lo stesso genere di errore che rischiamo di commettere sul referendum costituzionale, lasciando prevalere le polemiche e i pregiudizi rispetto alle valutazioni di merito: anche in questo caso, però, non dobbiamo rinunciare al futuro.
Giovanni Valentini
(da “La Gazzetta del Mezzogiorno” e “La Sicilia” del 5 ottobre 2016)