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UN DISASTRO ANNUNCIATO

Non è il primo, purtroppo, ma c’è da sperare che possa essere l’ultimo. Il disastro provocato dall’esplosione nel deposito di carburanti dell’Eni a Calenzano (Firenze), provocando una strage con cinque morti e oltre venti feriti, era stato annunciato da tempo: l’allarme non è bastato però a mobilitare il gruppo petrolifero ed è stato colpevolmente ignorato. E c’è mancato poco che l’inquinamento dell’aria coinvolgesse il territorio circostante, causando anche un disastro ambientale.

Sarà la magistratura, naturalmente, ad accertare le cause e le responsabilità della tragedia: la Procura di Prato ha già aperto un fascicolo, al momento s’indaga per omicidio colposo plurimo e si procede anche per i reati di lesioni colpose aggravate dalla violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro e per disastro colposo.. Fin d’ora si può chiamare in causa, tuttavia, il vertice di quello che si chiama ancora Ente nazionale Idrocarburi, la multinazionale pubblica con il cane a sei zampe che sputa fuoco dalla bocca.

Quello di Calenzano è un gigantesco hub petrolifero, a poco più di 20 chilometri in autostrada da Firenze, che collega la raffineria Eni di Livorno (anch’essa dell’Eni) con l’entroterra toscano. Copre una superficie di circa 170mila metri quadrati e ha una capacità di stoccaggio di 160mila tonnellate di carburante. Una potenziale bomba esplosiva, dunque.

Da tempo, l’impianto era stato classificato “ad alto rischio di incidente rilevante”, secondo la “direttiva Seveso” approvata dall’Unione europea per impedire incidenti analoghi come la fuga di diossina con la nube tossica che colpì il Comune lombardo nel 1976. E a Calenzano è avvenuto quello che si poteva prevedere e si doveva prevenire. Con un utile di 6,5 miliardi realizzato nel 2023, in crescita del 20,6% rispetto all’anno precedente, l’Eni non è riuscito a impedire che accadesse ciò che è accaduto. E il fatto più grave è che questa volta si tratta di un ente pubblico, di proprietà dello Stato, che appartiene quindi a tutti i cittadini.

Fonte: Radio Popolare

Già quattro anni fa, Maurizio Marchi, esponente livornese di “Medicina democratica”, aveva pubblicato un rapporto tecnico in cui indicava i quattro tipi di rischio a cui era sottoposto il gigantesco deposito dell’Eni: incidenti catastrofici, con esplosioni a catena; incendi devastanti; sversamento prolungati di idrocarburi; impatto sulla salute dei lavoratori all’interno e dei residenti all’esterno. L’allarme fu ripreso e rilanciato anche da alcuni giornali come La Nazione e dalla rivista Città invisibile. Ma a nulla sono valse finora le proteste degli abitanti e degli amministratori locali.

Ora è tempo che il governo e il Parlamento si mettano al lavoro, per evitare che altri disastri del genere possano ripetersi in futuro. Da un capo all’altro della Penisola, dal mega-deposito di Calenzano all’Ilva di Taranto, in Italia si continua a morire sui luoghi di lavoro: tre vittime al giorno sono un costo intollerabile di vite umane. Ma quasi sempre non è la fatalità a provocarle, più spesso sono l’incuria e l’irresponsabilità umana.

(in alto, il deposito in fiamme – foto USB (Unione sindacale di base)

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