“Ferma le trivelle, il mare è il nostro petrolio”, si leggeva sullo striscione che Giorgia Meloni esibiva in piazza, con tanto di simbolo di Fratelli d’Italia, a favore del Sì nel referendum del 17 aprile 2016 (nella foto sotto), fallito per mancanza del quorum. E in un post pubblicato su Facebook lei stessa spiegava che la consultazione popolare era “molto importante per la qualità del nostro ambiente”. Il quesito chiedeva agli italiani: “Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio?”.
Sono passati sei anni e ora, vinte le elezioni e assurta alla guida del governo, la presidente del Consiglio ha cambiato opinione. A dispetto della sua pretesa e rivendicata coerenza. Evidentemente, per lei le trivelle non rappresentano più un pericolo per l’ecosistema e il mare non è più il “nostro petrolio”. Così l’esecutivo di centrodestra ha deciso di dare il via libera alla ricerca del metano, ampliando il perimetro delle estrazioni e accelerando i tempi per le nuove concessioni.
È vero che oggi c’è la crisi energetica, e di conseguenza quella economica, provocate dalla guerra in Ucraina. E bisogna calmierare i prezzi del gas, per aiutare le famiglie e le imprese evitando licenziamenti in massa. Ma, come dicevano gli antichi romani, est modus in rebus. Qui, invece, il governo Meloni riabilita le trivelle per un piatto di lenticchie: 70 miliardi di metri cubi, secondo il ministro dello Sviluppo economico Adolfo Urso; appena 17, secondo Angelo Bonelli, portavoce di Europa Verde. In ogni caso, una quantità minima per soddisfare il fabbisogno nazionale, ma in compenso un’attiva pericolosa – soprattutto nell’Alto Adriatico – per l’assetto idrogeologico del territorio: in particolare, per quello dell’Emilia Romagna e del Veneto, minacciato dal fenomeno della subsidenza, cioè dell’abbassamento della piattaforma continentale, come già avvenne con la tragica alluvione del Polesine nel 1951.
Il piano governativo prevede adesso un doppio intervento. Il primo fa ripartire le concessioni già esistenti proprio nell’Alto Adriatico, escluso il bacino di Venezia. Le estrazioni off shore riprenderanno nell’area marina compresa fra il 45° parallelo e quello che passa per la foce del ramo di Goro nel Po, oltre le nove miglia dalla costa, nei giacimenti con una capacità oltre i 500 milioni di metri cubi. Il secondo intervento apre al rilascio di nuove concessioni in tempi rapidi (tre mesi invece di sei) e quindi a nuove trivellazioni. In sostanza, l’operazione partirà il 1° gennaio 2023, con 1-2 miliardi di metri cubi a prezzo calmierato per le imprese. Mentre per i due anni successivi, ammesso che le trivellazioni producano i risultati attesi, lo sconto riguarderà il 75% del gas potenziale che si potrà estrarre.
Ma il motivo di maggior preoccupazione è il rischio che questa ripresa delle estrazioni di gas e petrolio possa compromettere lo sviluppo delle fonti rinnovabili, pulite e non inquinanti, per contrastare il cambiamento climatico secondo gli impegni europei. “È un governo nero petrolio che farà fallire gli obiettivi climatici da raggiungere entro il 2030”, attacca il verde Bonelli. “Le quantità sono ridicole: tra riserve probabili e certe abbiamo 90 miliardi di metri cubi di gas e anche se le dovessimo estrarre tutte con uno schiocco di dita le esauriremmo in quindi mesi, perché consumiamo 70 miliardi all’anno”, incalza Stefano Ciafani, presidente di Legambiente. E il leader dei Cinquestelle, Giuseppe Conte, tuona: “Basta alle trivelle, basta all’inquinamento del nostro mare e a un governo ipocrita e servo dei poteri forti”.
Era stato già Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola e presidente onorario di Legambiente, a lanciare un primo allarme in un’intervista rilasciata all’agenzia Adnkronos nel maggio scorso: “Adesso, nell’emergenza, fare tutto quello che si può fare. Non è che riapri centrali a carbone che sono chiuse da anni, ci vuole tempo e ci vuole il carbone. Puoi provare a mantenere in vita per poco tempo centrali che già esistono. Lo stesso ragionamento vale per l’estrazione del metano: per quanto si possa aumentare la produzione nazionale, si parla del passaggio da circa 3,5 mld di metri cubi a 6-6,5, sempre sotto il 10% del consumo di metano dell’Italia”. E con un nuovo appello a favore delle energie alternative, come il fotovoltaico, l’eolico e l’idroelettrico, nei giorni scorsi lui stesso ha postato su Tweet: “Bisogna partire dalle tante imprese impegnate nella sostenibilità e superare i ritardi accumulati nelle rinnovabili, per dare forza alla nostra economia e non lasciare indietro nessuno”.