Una pletora di 12.166 concessioni a uso turistico (2021). Un giro d’affari di 15 miliardi di euro, su beni che appartengono al demanio pubblico come i litorali e le spiagge. Un incasso medio per lo Stato di 101 milioni nel quinquennio 2016-2020, dieci in meno di quanto effettivamente dovuto, pari allo 0,6% del fatturato. È un furto legalizzato ai danni della collettività, come ha scritto la Corte dei Conti denunciando che “i canoni attualmente imposti non risultano proporzionati ai fatturati conseguiti dai concessionari”.
In un’inchiesta a firma di Carlo Di Foggia e Marco Palombi, pubblicata su due pagine, Il Fatto Quotidiano ha puntato recentemente i riflettori sulla “Malaconcessione” che, oltre alle autostrade, riguarda anche le acque minerali. Un saccheggio di risorse pubbliche che fanno guadagnare soltanto i privati. E quello delle “spiagge d’oro” rappresenta uno scandalo nello scandalo, perché i gestori pagano (poco) per ottenere le concessioni e incassano (molto) per i servizi che vendono (cabine, sedie a sdraio e ombrelloni, lettini, servizio bar e ristorante).
È ancora presto per parlare di estate e di mare. Ma i concessionari si preparano già alla nuova stagione. E non è mai troppo presto per affrontare una situazione che si trascina ormai da almeno quindici anni, ai danni della collettività e spesso anche dell’ambiente. “A novembre – scrive Palombi – il Consiglio di Stato ha stabilito che le concessioni in essere scadranno a fine 2023: basta con le proroghe, quelle vecchie sono illegittime, entro due anni bisogna metterle a gara”.
Fino al 1977, continua la ricostruzione del Fatto, era lo Stato a governare sulle spiagge. Poi sono intervenute le Regioni, dispensando le concessioni spesso secondo criteri arbitrari o clientelari. Ma nel 2006 è arrivata dall’Ue la controversa Direttiva Bolkestein (dal nome dell’economista e politico olandese Frederik “Frits” Bolkestein) che ha stabilito la messa a gara delle concessioni.
Da allora in poi, di fronte al muro innalzato dai gestori contro le aste, i governi italiani non hanno fatto che approvare proroghe a loro favore, eludendo di fatto la normativa europea. Compreso, da ultimo, il “governissimo” di Mario Draghi. Sostenuti da alcune forze politiche, e in particolare dalla Lega di Matteo Salvini, habituè e santo protettore del “Papeete Beach” di Milano Marittima (nelle foto sotto), i concessionari si sono opposti alla Direttiva invocando i propri diritti acquisiti. Fatto sta che già nel 2008 la Commissione europea ha aperto una procedura d’infrazione contro l’Italia, poi revocata perché l’Italia aveva abolito nel frattempo il “diritto di insistenza”, cioè la preferenza accordata al gestore titolare della concessione al momento del rinnovo.
La svolta è sopraggiunta nel 2016, quando la Corte di Giustizia europea giudicò la legislazione italiana in materia contraria al diritto comunitario, come del resto aveva già fatto la nostra Consulta. Fatto sta che nel 2019 il governo giallo-verde, composto dai Cinquestelle e dalla Lega, ha prorogato di altri 15 anni il regime in atto (2033). E infine, sotto la pressione della Lega, il governo Draghi ha preso tempo con il cosiddetto “ddl Concorrenza” fino a che s’è pronunciato il Consiglio di Stato per mettere fine a un tale scandalo, sancendo l’illegittimità di ogni proroga e fissando la scadenza delle concessioni al 2023.
Per le prossime due stagioni estive, dunque, i gestori balneari possono stare ancora tranquilli. Ma entro la fine dell’anno prossimo la “cuccagna” dovrebbe finire. A meno che gli interesse di parte, e di partito, non prevalgano ancora una volta sull’interesse generale dell’intera collettività. Loro, nel frattempo, annunciano battaglia con un ricorso alla Corte di Cassazione contro la sentenza del Consiglio di Stato.