Mentre si torna a parlare di “nucleare pulito”, ignorando o fingendo di ignorare che questo per essere tale dovrebbe essere prodotto da fonti rinnovabili, riemerge come un mostro dalle acque l’annosa questione delle scorie disseminate disseminate in tutta la Penisola. “L’Italia è una pattumiera radioattiva”, s’intitola un documentato articolo di Daniele Rovai pubblicato sul quotidiano La Notizia, diretto da Gaetano Pedullà. Da una parte, dunque, i costi astronomici che il nostro Paese dovrebbe sostenere per realizzare le nuove fantomatiche centrali, nell’arco dei prossimi 15-20 anni; dall’altra, l’urgenza di trovare il sito di un “deposito nazionale” dove smaltire questi rifiuti pericolosi e di riprenderci entro due anni quelli trasferiti all’estero a suon di milioni.
Al momento, come ricorda l’autore dell’articolo, sono ancora 13 le installazioni nucleari da smantellare, di cui quattro centrali. E ammontano a 31.812 metri cubi le scorie radioattive, lasciate in eredità dalla prima stagione nucleare: quella degli anni Settanta, chiusa dal referendum popolare del 1987 con cui l’80% degli italiani respinse l’energia dell’atomo. La “montagna dei rifiuti” arriverà a un totale di 74.816 metri cui con lo smantellamento dei vecchi impianti. Una maledizione biblica se si pensa che occorrono dai 300 ai 2.500 anni perché questi manufatti perdano la loro carica radioattiva.
Nel 2003, il governo di Silvio Berlusconi decise di costruire il deposito unico nazionale, affidando al generale degli Alpini Carlo Jean il compito d’individuare la località. Fu scelta Scanzano Jonico, in Basilicata. Ma la popolazione della regione insorse contro questo progetto e dopo poche settimane il governo lo lasciò cadere.
Nel 2021, fu il governo gialloverde di Giuseppe Conte a pubblicare un rapporto che indicava 67 aree considerate adatte per realizzare il deposito. Ma anche questa volta l’opposizione di tutti i sindaci dei territori interessati si rifiutarono di ospitarlo. E ora toccherebbe la decisione spetterebbe dal governo di Giorgia Meloni he finora s’è ben guardata dal mettere l’argomento all’ordine del giorno.
Finora, l’Italia ha cercato di risolvere il problema delle scorie aggirando i regolamenti europei, secondo cui ogni Paese deve tenere sul proprio territorio i rifiuti radioattivi. Nel 2003, l’esecutivo Berlusconi raggiunse un accordo con il presidente russo Vladimir Putin, per trasferire le scorie in un deposito da costruire nei vecchi sommergibili nucleari sovietici, al costo di 360 milioni. Ma poi i rifiuti sono rimasti qui.
In seguito, tra il 2004 e il 2006, l’ex ministro dell’Industria Pierluigi Bersani sottoscrisse un accordo per spedire in Francia 235 tonnellate di scorie radioattive, pagando 260 milioni di euro, in attesa di realizzare il deposito nazionale per lo stoccaggio. L’Europa autorizzò questo “export”, a condizione però di riportare in Italia il materiale entro il 2025. Rischiamo così di pagare pesanti penali, come quelle che sitiamo corrispondendo all’Inghilterra per il “parcheggio” di 678 tonnellate di combustibile.
Ora la prima centrale nucleare di terza generazione è entrata in funzione a Olkiluoto 3, in Finlandia, dopo 18 anni di lavori e con una spesa di 8,5 miliardi di euro. L’Italia, invece, è sotto infrazione europea perché non ha ancora trasmesso alla Commissione di Bruxelles il Piano nazionale per la gestione dei rifiuti radioattivi. “Questo vuol dire – scrive ancora Rovai su La Notizia – che il nostro Paese per decenni dovrà chiedere a quelle nazioni che hanno il know-how nucleare, come la Francia e gli Stati Uniti, non solo di costruirci le centrali ma di aiutarci a realizzare anche la filiera nucleare, quindi l’approvvigionamento dell’uranio, la fabbricazione del combustibile, la preparazione dei tecnici per la conduzione degli impianti”. E, conclude l’autore dell’articolo, “vuol dire legare mani e piedi la nostra politica energetica e pagare a peso d’oro la loro consulenza”.