Si chiama ancora ENI, Ente nazionale idrocarburi, anche se quell’acronimo originario è ormai superato dai tempi. Ma con le stesse iniziali si potrebbe ribattezzare “Ente nazionale inquinamento”, in base alle sue attività di ricerca del petrolio e del gas e soprattutto al nuovo piano di investimenti 2021-2024 appena presentato ufficialmente. Il logo del cane a sei zampe, con la bocca fiammeggiante, rimane del resto sempre lo stesso. Dalla Basilicata fino all’Egitto, dall’Adriatico al canale di Sicilia, l’Eni continua a perforare il territorio e a trivellare il mare, come se la transizione ecologica non esistesse e i combustili fossili, inquinanti e nocivi, non dovessero lasciare il posto alle fonti alternative, naturali, a cominciare dal sole e dal vento. E due anni fa, lo sversamento di petrolio nello stabilimento della Val d’Agri ha portato all’arresto di un dirigente della compagnia e a un’indagine su 13 persone per “disastro ambientale”, suscitando l’allarme e le conseguenti proteste della popolazione lucana.
Eppure, si tratta di un ente di Stato, un ente pubblico, tenuto anch’esso a rispettare le direttive nazionali ed europee; a eseguire le indicazioni governative per passare a un’energia pulita, nel segno della sostenibilità e contro il riscaldamento globale. Non a caso le associazioni ambientaliste hanno criticato il piano triennale, protestando a Roma con un iceberg simbolico, molto più piccolo di quello che s’è staccato nei giorni scorsi dall’Antartide. Una colossale massa di ghiaccio, estesa per circa 4.320 chilometri quadrati, quanto il nostro Molise e più grande dell’isola spagnola di Maiorca.
A mettere l’Eni sotto accusa, in senso figurato e sul piano strategico, è ora un’analisi realizzata da Merian Research, un’agenzia tedesca specializzata, per la Fondazione Finanza etica, l’associazione ReCommon (contro gli abusi di potere e il saccheggio dei territori) e Greenpeace Italia. Si comincia dal capitolo della “decarbonizzazione”, il processo che punta a ridurre il rapporto carbonio-idrogeno nelle fonti energetiche, proprio per contrastare l’inquinamento dell’atmosfera e il global warming, cioé i cambiamenti climatici che innalzano la temperatura del pianeta e compromettono la sopravvivenza del genere umano.
Nel piano dell’Eni, spiegano gli esperti che hanno realizzato la ricerca, l’obiettivo “zero emissioni” entro il 2050 è di fatto vanificato da un artificio contabile, per quanto consentito dalle leggi in vigore, come quelli che si usano per far quadrare i bilanci delle società. Il business plan non contempla l’azzeramento effettivo dei “gas serra”, quelli che provocano appunto il surriscaldamento, bensì opere di compensazione (forestazione e cattura o stoccaggio della CO₂) che alla fine porteranno il risultato a zero. Gli impianti dell’Eni, insomma, continueranno a emettere anidride carbonica, ma questa potenziale “nube tossica” verrà per così dire coperta, nascosta, neutralizzata.
Entro il 2030 l’azienda prevede, infatti, di abbattere solo il 25% delle emissioni. Ma in questo modo, contesta Greenpeace Italia, “ignora le indicazioni della comunità scientifica che indica i prossimi dieci anni decisivi” per la riconversione ecologica dell’economia e la salvaguardia del pianeta. Nel breve termine, intanto, aumenteranno le estrazioni di gas e petrolio: la produzione crescerà del 4% l’anno, rispetto al 3,5% dell’anno precedente relativo al periodo 2019-2025. Questa strategia industriale è confermata anche dal dato che il capitale di investimento destina ben il 65% all’estrazione a solo il 20% agli impieghi “green”, comprese le bioraffinerie e il settore retail “gas&power”. Mentre in Olanda una sentenza storica emessa dal tribunale dell’Aia, su ricorso di 7 Ong e 17mila cittadini, ha condannato la Shell (che ha presentato appello) a ridurre del 45% il volume assoluto delle emissioni di CO₂ entro il 2030.
In base al nuovo business plan, invece, l’Eni installerà entro il 2024 appena 4 Gw di energie rinnovabili che diventeranno 15 nel 2030. Mentre la British Petroleum, per quella data, ha un obiettivo di 50 Gw e la francese Total punta a 100 Gw. E anche questo è un confronto che non depone a favore del nostro ente di Stato.
In una tale prospettiva, verrà incrementato il ruolo del Ccs (Carbon capture and storage), decuplicando i pozzi di assorbimento del carbonio per sviluppare il cosiddetto “idrogeno blu”, non ancora sicuro sul piano tecnologico, piuttosto che quello “verde” prodotto soltanto con energie alternative. In sintesi, secondo il piano triennale, nel 2050 l’Eni produrrà ancora 90 milioni di tonnellate di “gas serra” all’anno. Altro che “zero emissioni” come indicano il Parlamento e la Commissione europea.
E’ dal 9 aprile scorso che questo sito, senza aspettare i comunicati ufficiali, ha segnalato il caso delle nuove trivellazioni autorizzate o prolungate dal ministero della cosiddetta Transizione ecologica, nel mar Adriatico e nel canale di Sicilia, di cui l’Eni è il maggiore beneficiario (https://www.amatesponde.it/via-libera-alle-trivelle/). E poi, ancora il 13 aprile Amate Sponde è tornato di nuovo sull’argomento, con un altro articolo intitolato “Eni, trivella continua” (https://www.amatesponde.it/eni-trivella-continua/). Ora il neo-ministro Roberto Cingolani se ne lava le mani, come Ponzio Pilato, dichiarando che quelle trivelle già esistevano e che non è stato lui ad autorizzarle. Ma è soltanto una mezza verità: se avesse voluto, il ministero avrebbe anche potuto – e a nostro avviso – dovuto bloccarle, proprio in nome della transizione ecologica e anche degli impegni assunti con l’Unione europea per ottenere i fondi del Next Generation Ue.
La verità, intera, è che con il governo Draghi sembra di assistere piuttosto a un’inversione ecologica, cioé a un ritorno al passato. Dallo sblocca-cantieri al via libera alle trivelle, la politica dell’esecutivo tende a privilegiare uno sviluppo economico poco o affatto sostenibile rispetto alla tutela ambiente. E l’Eni fa la parte del leone, invece del cane a sei zampe che campeggia sulle sue bandiere.