La maledizione del nucleare continua, come una condanna biblica, millenaria. Nei mesi scorsi Amate Sponde aveva già affrontato la questione del sito nazionale in cui dovrebbero essere sotterrati i 95mila metri cubi di scorie radioattive, provenienti dalle vecchie centrali. Ora, dai misteri del nucleare italiano, emergono altre 18 discariche radioattive, distribuite in particolare fra tre regioni, per la maggior parte in Lombardia e in particolare nella provincia di Brescia, due in Veneto e una in Toscana.
La nuova mappatura è stata effettuata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali correlati, presieduta dal pentastellato Stefano Vignaroli. Si tratta di depositi definiti di “creazione impropria”, cioè abusivi o incontrollati, dove sono state stoccate le scorie nucleari prodotte da industrie che svolgono attività convenzionale in “situazioni anomale o incidentali”, come per esempio gli impianti metallurgici. “In dette installazioni – si legge testualmente nel Rapporto presentato in Parlamento – sorgenti radioattive, della cui presenza non si era consapevoli, hanno provocato situazioni di rilievo radioprotezionistico”. In altre parole, un pericolo per la popolazione e per la salute collettiva, con il rischio di contaminazione delle falde acquifere.
Dal documento parlamentare, emerge che circa 55mila metri cubi di questi materiali, corrispondenti a circa 82mila tonnellate, si trovano nella discarica della “Capra SpA”, un’ex raffineria nel Comune di Capriano del Colle, in provincia di Brescia. Nella stessa area, sono stati individuati i siti dell’ex Cagimetal e dell’ex cava Piccinelli. Nel 2019, inoltre, sono stati rilevati altri due siti industriali con presenza di radionuclidi artificiali in Lombardia e uno in Toscana. Per la bonifica di queste discariche, che si aggiungono alle vecchie centrali dismesse, mancano però i fondi e tardano le procedure prefettizie.
Lo smaltimento delle scorie richiede spese ingenti, opere colossali in cemento armato e soprattutto molti anni per essere completato. Non a caso questo è stato uno dei motivi principali del fronte che s’è opposto all’utilizzazione di una fonte concepita originariamente come energia di distruzione e di morte: dal lancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki (Giappone, 1945) fino al disastro della centrale di Chernobyl (Ucraina-URSS, 1986). E nonostante tutte le polemiche e le critiche, il No sancito dalla maggioranza del popolo italiano nel referendum del 1987 ha risparmiato al nostro Paese – in gran parte a rischio sismico – l’esperienza diretta di una tragica esperienza, decretando la chiusura dei quattro siti nucleari.
Oggi, però, l’Italia deve ancora sotterrare la montagna venefica di 95mila metri cubi di rifiuti radioattivi, provenienti dalle vecchie centrali, ma anche dal mondo industriale, da quello della ricerca e da quello ospedaliero, compresi i materiali e le sostanze che si usano per le diagnosi cliniche (in particolare, radiografie) e per le terapie antitumorali. Dobbiamo farlo innanzitutto per tutelare la nostra sicurezza e la nostra salute, ma allo stesso tempo per rispettare gli impegni internazionali fissati dalla Iaea (International atomic energy agency), come hanno già fatto altri Paesi europei. E perciò, sarà necessario seguire i criteri indicati a suo tempo dal nostro Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale (Ispra, ora Isin), tenendo conto delle caratteristiche del territorio ed escludendo le zone a elevato rischio vulcanico e sismico, fagliazioni, frane, alluvioni o che insistono su aree protette o insediamenti civili, industriali e militari.
È stato compilato così l’elenco delle 67 aree potenzialmente idonee che da Nord a Sud, incluse le due isole maggiori, corrispondono a questi requisiti: 8 in Piemonte, 24 fra Toscana e Lazio, 17 fra Puglia e Basilicata, 14 in Sardegna e 4 in Sicilia ((https://www.depositonazionale.it/). Ma com’era prevedibile, s’è subito scatenata la reazione delle regioni coinvolte. È il classico “effetto Nimby” (not in my back yard, non nel mio cortile) che suscita qualsiasi opera pubblica quando investe un determinato territorio: dai parcheggi sotterranei nelle città ai viadotti o alle autostrade, dal Tap (il gasdotto trans-adriatico che sbarca sulla costa pugliese) alla Tav (la linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione).
Sono reazioni comprensibili e spesso anche giustificate. Questa volta, però, l’Italia è impegnata ad avviare i lavori per la costruzione del deposito entro il 2025. E si conta di poterli completare nell’arco di una decina d’anni. Il fatto nuovo e positivo è che, come si può leggere nello stesso sito web indicato qui sopra, prima di decidere la collocazione del Deposito si procederà all’insegna della trasparenza a una consultazione pubblica, a cui saranno invitati i “portatori di interessi qualificati”, Regioni ed enti locali. Attraverso questo iter, si approfondiranno gli aspetti connessi alla sicurezza dei lavoratori, della popolazione e dell’ambiente e i possibili benefici economici e di sviluppo territoriale connessi alla realizzazione dell’opera.
Il Deposito dovrà contenere inizialmente 78mila metri cubi di rifiuti radioattivi a bassa e media intensità. Successivamente se ne aggiungeranno 17mila ad alta attività, per un massimo di 50 anni. Verrà costruito su un’area complessiva di 150 ettari, con una copertura multistrato (vedi foto qui sopra) e una struttura a “matrioska”: all’interno di 90 costruzioni in calcestruzzo armato, saranno collocati grandi contenitori in calcestruzzo speciale. Particolari barriere ingegneristiche garantiranno l’isolamento delle scorie per più di 300 anni. Per la realizzazione dell’opera, compreso un Parco tecnologico che coinvolgerà istituzioni e popolazioni locali nella gestione, è prevista una spesa di 900 milioni di euro con 4.000 posti di lavoro l’anno per quattro anni di cantiere.