Nell’antico palazzo progettato dall’architetto Duilio Cambellotti, sede dell’Acquedotto Pugliese in via Cognetti a Bari, è esposto un grande quadro d’epoca che raffigura gli imponenti lavori di scavo per la posa delle tubature nelle nostre campagne, in mezzo a una distesa di ulivi secolari. Devo dire la verità: la prima volta che l’ho visto, mi ha fatto una certa impressione. Poi ho riflettuto sul fatto che quell’opera colossale fu realizzata all’inizio del secolo scorso per costruire l’acquedotto più grande d’Europa e servire la “Puglia sitibonda” che, non avendo – com’è noto – rilievi montuosi sul suo territorio, è l’unica regione meridionale senza acqua propria. E così mi sono in qualche modo consolato.
Non so se a quei tempi qualcuno protestò o si oppose per un intervento che aveva indubbiamente un forte impatto sull’ambiente, sulla natura o sul paesaggio: per ironia della storia, ormai la superficie di quel tracciato è diventata anche un’attrazione per il cicloturismo internazionale. So bene, invece, che l’acqua è un bene primario ed è assai diversa dal gas. Ma, fatte ovviamente le debite differenze, mi sembra che oggi il progetto della Trans Adriatic Pipeline (Tap) sia paragonabile a quello d’inizio ‘900. Certo, un acquedotto non è un gasdotto. Eppure, la rete che dovrebbe portare il metano dal Mar Caspio in Puglia e in Europa, approdando sulle coste del Salento, potrebbe avere una funzione analoga, altrettanto importante per noi e per tutto il Continente.
Milito sul fronte ambientalista da una quarantina d’anni e ho combattuto con le armi del giornalismo numerose battaglie, come quella contro le trivellazioni petrolifere in Val di Noto, scrigno del Barocco siciliano a cui quello leccese non ha certamente nulla da invidiare. Non ignoro affatto le incognite e i rischi di un’opera del genere. E tuttavia in nome di quello che chiamo un “ambientalismo sostenibile”, compatibile cioè con le ragioni del progresso e del benessere, ritengo che anche in questa occasione sia opportuno fare un calcolo costi/benefici, in un’ottica regionale, nazionale ed europea: stiamo parlando, infatti, di un progetto strategico e di una priorità per la politica energetica dell’Europa.
D’altra parte, se la Campania, la Basilicata e il Molise si fossero rifiutate di concedere l’acqua delle loro montagne alle nostre pianure, noi pugliesi che cosa avremmo detto e fatto? Non voglio qui apparire provocatorio. Auspico piuttosto che si possa riflettere più costruttivamente di quanto non si sia già fatto finora: non per ingaggiare una “guerra di religione”, schierandosi per il Sì o per il No e dividendosi ancora una volta tra guelfi e ghibellini, ma per fissare magari regole e criteri da osservare a tutela dell’ambiente, dell’agricoltura, del turismo e infine dell’occupazione. Il recente crollo sul Lungarno a Firenze, proprio per la rottura di una tubazione dell’acqua, dimostra del resto che anche in questo campo la prevenzione e l’ordinaria manutenzione sono sempre indispensabili.
Fra tutte le fonti fossili, rispetto al petrolio e al carbone il gas naturale rimane quella più pulita e sostenibile. E in attesa di completare la transizione alle energie alternative, per il momento non possiamo permetterci il lusso di trascurarla o di abbandonarla. I rischi maggiori per l’ecosistema riguardano, peraltro, i siti di estrazione che in questo caso si trovano in Azerbaijan: a volte, infatti, l’abbassamento della pressione sotterranea può produrre fenomeni di subsidenza. Ma comunque negli ultimi quarant’anni, fra il 1970 e il 2011, non s’è verificato alcun incidente nelle reti di metano con tubi di portata superiore ai 25 millimetri (lo spessore di quelli del Tap sarà di 26,8).
Se si osserva poi la cartina geografica con
l’intero tracciato del “Corridoio Meridionale”, lungo in totale 3.500 chilometri dal giacimento di Shah Deniz sul Mar Caspio fino alla costa pugliese, chiunque può rendersi conto ragionevolmente che questo è l’approdo più plausibile.
È necessario, però, ridurre al minimo l’impatto ambientale, rispettando rigorosamente tutti gli standard internazionali di sicurezza, in difesa della popolazione, della salute e del territorio. Tanto più per la “bretella” di circa 55 chilometri, a cavallo delle province di Lecce e di Brindisi, affidata all’italiana Snam che già gestisce una rete nazionale di 35.000 chilometri, vanta una collaudata esperienza anche sul piano del ripristino naturale e offre ampie garanzie di affidabilità.
Questa non è soltanto una questione di carattere economico o ambientale. La Puglia deve salvaguardare innanzitutto la fama e l’immagine che il Salento ha saputo conquistarsi sul piano della cultura, dello spettacolo e del turismo. Ma, in vista di un referendum popolare che contempla anche la modifica del Titolo V della Costituzione per ridurre i poteri delle Regioni nei confronti del governo centrale, il gasdotto trans-adriatico può diventare un paradigma della politica energetica e dei rapporti che la regolano: in particolare, quelli fra lo Stato e le autonomie locali. Se le rivendicazioni territoriali dovessero prevalere sull’interesse generale, dell’Italia e dell’Europa, per paradosso noi pugliesi potremmo rischiare di rimanere senza gas e senz’acqua.
Giovanni Valentini
(da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 1° giugno 2016)