“Doveva essere la più grande diga d’Europa, è rimasta la più grande incompiuta forse non solo in Europa almeno per quanto riguarda i bacini idrici”. Lo scrive Nino Amadore in un articolo pubblicato sulla prima pagina del Sole 24 Ore, dedicato alla diga sul fiume Esaro, in Calabria, per la quale sono stati già spesi 65 milioni di euro. In base al progetto originario del 1979, doveva avere una portata di 120 milioni di metri cubi di acqua, una capacità di produzione di energia da 30 gigawattora e costare inizialmente 71 milioni di vecchie lire. Ma è diventata un monumento allo spreco di denaro pubblico: tanto più in un Paese come il nostro, afflitto dalla siccità soprattutto nelle regioni meridionali; dove la rete idrica perde ancora il 42% e l’agricoltura soffre per la mancanza d’acqua.
La diga incompiuta si trova in località Cameli, provincia di Cosenza. Una volta completata, avrebbe consentito con 1.300 litri al secondo di irrigare la piana di Sibari e con 750 litri al secondo di distribuire acqua potabile in mezza regione. I lavori furono avviati nel 1986, a tre anni dall’affidamento dell’appalto. Ma sono stati interrotti l’anno successivo a causa di una frana che ha travolto la spalla sinistra della struttura. Un pericolo di cui, evidentemente, i progettisti non avevano tenuto conto. “E poi – spiega l’autore dello stesso articolo – non c’è stato verso di farli andare avanti tra perizie, controversie, indagini giudiziarie, contenziosi e impegni per nuovi finanziamenti”. Al danno economico, ora s’aggiunge così anche quello ambientale: la “grande incompiuta” è come la cicatrice di una ferita per il territorio calabrese.
Ma già nel novembre del 2021, in un articolo pubblicato sulla Gazzetta del Sud, il giornalista Arcangelo Badolati aveva denunciato una situazione analoga diffusa in tutto il Cosentino. Oltre alla diga sull’Esaro, aveva segnalato quella del Votturino, nel cuore della Sila; quella del Re di Sole a San Giovanni in Fiore; quella sul fiume Trionto nella zona ionica. Tutte “progettate, messe in piedi spesso solo in parte e poi mai entrate in funzione”. Uno sfregio al paesaggio, in una regione prevalentemente montuosa e potenzialmente ricca d’acqua per gli usi domestici, l’agricoltura e l’energia idroelettrica. E dunque, un doppio scandalo.
Da un capo all’altro della Penisola, risalendo da Sud a Nord, un’altra diga si ritrova in questo momento al centro delle polemiche. È quella foranea progettata per ampliare e potenziare il porto di Genova (nella foto sopra, il rendering). Qui i lavori sono in corso, ma l’Anac (Autorità anticorruzione) ha ritenuto di aprire uno scontro con il Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture, contestando alcune irregolarità. Il Mit ha respinto però tutte le obiezioni dell’Authority, replicando che “i costi dell’opera non sono aumentati e nessuna contestazione riguarda presunti fenomeni corruttivi”.
Secondo l’impresa costruttrice WeBuilding (gruppo Salini), “la nuova diga è un’opera unica al mondo per complessità, dimensioni e ricadute positive per la città e sul sistema Paese”, a favore di tutta la portualità italiana. Lunga complessivamente 6.200 metri, nella prima fase l’opera dovrebbe arrivare a 4.125. Il progetto prevede la realizzazione di un nuovo canale interno largo 400 metri con un fondale di 50 metri. Tutto ciò consentirebbe “l’ingresso nel porto di Genova delle grandi navi portacontainer, lunghe oltre 400 metri e larghe 60 metri, e delle navi da crociera World Class”. Sulla carta, il costo complessivo si aggira intorno a 1,3 miliardi di euro, di cui 500 milioni finanziati con i fondi europei del Piano nazionale di ripresa e resilienza.