Gli ultimi mesi non sono stati certamente i più sereni tra quelli vissuti nel corso dei secoli dalle meraviglie artistiche di Roma, le cui disavventure sono finite sui giornali di mezzo mondo con le immagini dei danni inferti dagli hooligans olandesi alla fontana della Barcaccia, scolpita dal Bernini in piazza di Spagna, o delle firme graffite dai vandali del turismo sui muri del Colosseo. Questi, però, sono soltanto i casi più eclatanti. E lo sanno bene, purtroppo, i romani e i turisti che hanno avuto modo recentemente di visitare un capolavoro del Medioevo italiano: il ciborio duecentesco di Arnolfo di Cambio conservato nella basilica romana di S. Cecilia in Trastevere.
A fine gennaio, un minaccioso ponteggio – la cui presenza avrebbe dovuto insospettire il pubblico a pochi anni di distanza dal recente restauro eseguito nel 2006 – aveva inglobato il monumento. Ma, appena smantellata la “gabbia”, uno spettacolo terribile si è presentato agli occhi degli sbigottiti visitatori. L’opera di Arnolfo, sopravvissuta indenne fino ai giorni nostri in tutta la sua straordinaria bellezza, è apparsa profondamente mutilata: priva sia della cuspide di marmo centrale posta a coronamento della struttura architettonica, sia dei vasi di metallo usati come terminazioni delle quattro guglie laterali, nonché della croce bronzea che sormontava il timpano frontale. Tutte aggiunte seicentesche, queste, che avevano comunque l’altissimo valore di testimonianza della storia secolare del ciborio.
Risultato? Un vero e proprio scempio che porta la firma delle monache benedettine di S. Cecilia, appoggiate dal rettore vaticano della basilica, in nome del presunto recupero di un’originalità che vede nelle aggiunte barocche una storpiatura del progetto originario. Come se non bastasse, la manomissione è resa ancora più grave dal fatto che il Polo Museale romano, ente preposto alla salvaguardia del ciborio, oltre a essere stato tenuto all’oscuro di tutto dalle monache. E ora si ritrova a dover lottare affinché le parti rimosse vengano ripristinate, scontrandosi però contro un muro di gomma.
L’intervento compiuto nella basilica romana è figlio di un sempre più dilagante malcostume secondo cui il bene culturale, soprattutto quello conservato in chiese, monasteri e abbazie, viene svuotato della sua dimensione pubblica, sottolineata invece con forza dalla normativa italiana in materia. Un atto che nasce dalla pretesa di potersi arrogare il diritto di devastare impunemente una testimonianza storico-artistica, senza considerare che quel bene non è una proprietà privata a uso e consumo di chi “abita” i luoghi che lo ospitano.
La tendenza a negare questo valore di res publica non può portare a nulla di buono, se non allo smantellamento – pezzo dopo pezzo – di quel patrimonio che ancora oggi rende grande l’Italia agli occhi del mondo. Ignorare tutto ciò o, peggio ancora, agire perché incuranti delle leggi di uno Stato che troppo spesso perde il controllo della situazione lasciando impuniti tali gesti, sono atteggiamenti che vanno condannati duramente e che non possono essere più tollerati.
Danneggiare la Barcaccia; incidere i propri nomi sui muri del Colosseo e portarne via qualche frammento come souvenir; oppure smembrare parti del ciborio di una basilica, perché considerate superflue o posticce, equivale a uccidere il nostro passato rinunciando alla propria identità culturale. Un Paese che non si prende cura del patrimonio culturale rinuncia a un tesoro che appartiene di diritto all’intera comunità, ma che implica anche il dovere di salvaguardarlo e di trasmetterlo alle generazioni future, affinché trovino in questa Bellezza la capacità di crescere nel miglior modo possibile.
Valeria Danesi
ALLEGATI (click per visualizzare):
1. La Scheda
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Colosseo