Sono circa 200 al momento i parchi eolici fermi in Italia, a causa delle pastoie burocratiche e dell’opposizione delle Soprintendenze, per una produzione potenziale di 9 gigawatt. Senza nuovi impianti, dipenderemo sempre più dall’importazione di energie dall’estero o rischieremo i blackout della rete. E se continueremo a costruire centrali eoliche e fotovoltaiche a questo ritmo, occorreranno 70 anni per raggiungere l’obiettivo della “decarbonizzazione” fissato dall’Unione europea per il 2030 (-55% di gas serra rispetto ai livelli del 1990).
È l’inquietante scenario che risulta da un documentato articolo di Guido Fontanelli apparso su Domani, sotto il titolo “La burocrazia blocca i progetti sulle energie rinnovabili”. Eppure, la transizione energetica è una dei pilastri fondamentali del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR): sugli oltre 222 miliardi stanziati, una settantina dovrebbero essere destinati proprio alla “decarbonizzazione”, in modo da ridurre l’inquinamento e contrastare il riscaldamento del pianeta. E per abbattere le emissioni di anidride carbonica, è necessario produrre appunto più elettricità dalle fonti rinnovabili.
Secondo quanto ha dichiarato il 22 giugno scorso il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, questo significa che bisogna “installare nei prossimi nove anni una quantità di impianti eolici e fotovoltaici corrispondenti a circa 70 gigawatt”, cioè circa 8 gigawatt verdi all’anno. Ma il fatto è che oggi ne installiamo appena 0,8. Tant’è che l’11 giugno il Gestore dei servizi energetici (Gse), l’ente pubblico che assegna gli incentivi per la produzione delle rinnovabili, ha messo all’asta un “pacchetto” di 1.582 megawatt di nuova capacità, ma ha ricevuto offerte dalle imprese energetiche per soli 98,9. E così alla fine dell’asta, sono stati autorizzati progetti per appena 73,7 megawatt, meno del 5% della disponibilità complessiva.
Perché si costruiscono così pochi impianti di rinnovabili nel nostro Paese? Risponde Fontanelli nel suo articolo: “No, il motivo principale è un cocktail di fattori in cui l’ingrediente più importante è l’iter autorizzativo a cui si aggiungono la resistenza delle popolazioni interessate (l’effetto Nimby, not in my back yard – non nel mio giardino o nei mio cortile, ndr) e un pizzico di sciatteria delle società che installano pale eoliche e pannelli fotovoltaici”. Per completare le pratiche autorizzative, infatti, da noi occorrono circa cinque anni contro i sei mesi previsti dalla normativa europea.
Negli ultimi anni, per la verità, la nostra produzione di energia elettrica ricavata da fonti alternative è triplicata. Il 60% arriva ora dalle centrali termoelettriche (gas e a carbone) e il 40% delle rinnovabili. E queste nei primi cinque mesi del 2021 hanno coperto il 37,7% della domanda di elettricità. Allo stato attuale, dunque, l’Italia ha una capacità installata di produzione di elettricità pari a 116 gigawatt, di cui 56 da impianti verdi. Ma, come avverte il ministro Cingolani, questo numero dovrebbe più che raddoppiare nell’arco dei prossimi nove anni per rispettare il “target” indicato dall’Ue.
In un quadro così complesso, s’inseriscono però le varie Soprintendenze ai beni paesaggistici, archeologici e artistici che esercitano un diritto di veto e possono bloccare la realizzazione di un’opera. E questo diventa, purtroppo, un altro fattore frenante. L’Anev, l’associazione delle imprese per l’energia del vento, “sostiene che le Soprintendenze – come si legge su Domani – godono di un’eccessiva discrezionalità e propone che motivino la loro opposizione suggerendo degli aggiustamenti e, laddove l’area non è tutelata, che il loro parere non sia vincolante”. Al termine dell’iter autorizzativo, la decisione finale spetta a maggioranza alla Conferenza dei servizi che riunisce a Roma ben 38 enti diversi, oltre alla Valutazione di impatto ambientale (VIA) che viene espressa dal ministero competente.
La querelle, come ha già riferito in passato Amate Sponde, divide anche il fronte ambientalista. Da una parte, Legambiente su una posizione più pragmatica e costruttiva; dall’altra, Italia Nostra più intransigente e radicale nella difesa del paesaggio. “Il territorio italiano – sostiene polemicamente Stefano Ciafani, presidente di Legambiente – è sempre cambiato, fin da quando i romani costruivano i loro acquedotti o i geni del Rinascimento edificavano le loro magnifiche cattedrali”. Replica Vitantonio Iacoviello di Italia Nostra: “Come si possono paragonare le monumentali splendide rinascimentali e i giganteschi acquedotti romani con le migliaia di pale e gli sterminati campi fotovoltaici?”. Su un punto, però, gli ambientalisti concordano: oltre alla lentezza della burocrazia e alla resistenza delle Soprintendenze, anche le società proponenti avrebbero qualche responsabilità nello sviluppo ritardato delle rinnovabili: documentazione inadeguata, tentativi di edulcorare l’impatto sul paesaggio, grossolani errori da “copia e incolla” nella formulazione delle pratiche.
La nostra “Grande Bellezza”, fatta di natura e cultura, resta un patrimonio da tutelare e valorizzare, anche per salvaguardare il turismo che è la prima industria nazionale. E quindi, gli impianti eolici e quelli fotovoltaici non vanno installati nelle aree protette, nelle zone di pregio ambientale o lungo le coste. Ma è chiaro, comunque, che ora l’Italia non può rischiare di perdere un terzo del Recovery Fund europeo. Senza queste risorse e senza le energie verdi, il paesaggio certamente non migliorerebbe. Né tantomeno migliorerebbero la qualità dell’aria che respiriamo e le condizioni della salute collettiva.