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RIFIUTI in STRADA INCIVILTÀ DIFFUSA

Riprendo la segnalazione del signor Gianni Gabbi, da voi pubblicata sotto il titolo “Rifiuti, inciviltà indifferenziata”, per ribadire il concetto che – a parte la maggiore o minore efficienza delle amministrazioni pubbliche – la pulizia delle nostre città dipende innanzitutto dai nostri comportamenti individuali e dalle nostre buone o cattive abitudini. Perfino nei quartieri centrali di Roma, quelli abitati generalmente dalle cosiddette “persone perbene”, non è raro vedere scene come quelle documentate dalle foto che allego: rifiuti di ogni genere sparsi per terra, fuori dai cassonetti, disseminati sui marciapiedi. È una testimonianza d’inciviltà a cui, purtroppo, si assiste ogni giorno.

La verità è che a Roma la raccolta indifferenziata non si fa o quantomeno non si fa seriamente. Sì, ci sono i cassonetti di diverso colore per i rifiuti organici, la carta, il vetro e l’alluminio. Ma poi i camion della nettezza urbana raccolgono tutto insieme e chissà dove va a finire questa valanga quotidiana di spazzatura. O meglio, si sa pure: nelle discariche a cielo aperto, come quella di Malagrotta, dove confluiscono rifiuti d’ogni genere.

Non sarebbe meglio, allora, adottare gli inceneritori o – come vengono chiamati – i “termovalorizzatori”? So che al Nord, per esempio a Brescia, questi impianti funzionano bene e anzi forniscono ai cittadini anche energia o acqua calda. In attesa però di risolvere il problema, ciascuno di noi può contribuire intanto alla pulizia e al decoro urbano, evitando di seminare i rifiuti per strada.

Annamaria Pozzi, Roma

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UN FORTE IN ROVINA NEL CUORE DI ROMA

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Ci sono città in Europa che farebbero di tutto per avere al loro interno una vera foresta urbana. Pensiamo ad Atene o alla stessa Parigi che posseggono un indice di verde per abitante molto inferiore alla media contiunentale. E ci sono città, come Roma, dove un patrimonio ambientale unico viene lasciato andare in malora. Incastonato tra i Parioli e il quartiere Salario, il parco di Monte Antenne è un “unicum” sia per la sua biodiversità sia per la sua storia.

Da qui provengono gran parte delle donne del leggendario ratto organizzato da Romolo. Gli “antemnati” abitavano il piccolo monte ben prima della nascita di Roma. Ante Amnes stava a significare “davanti ai fiumi”, dove appunto il Tevere e l’Aniene si congiungono. Nel 749 a. C. il primo re di Roma allestisce una grande festa e chiama tutte le popolazioni dal circondario. Gli “antemnati” e i sabini partecipano numerosi, ma si accorgeranno troppo tardi che la festa era una trappola ordita da Romolo per rapire le donne necessarie alla crescita della nuova città. Quello che passerà alla storia come il ratto delle Sabine, dovrebbe essere ribattezzato perciò “il ratto delle Sabine e delle Antemnate”.

I resti di questo popolo furono ritrovati nella seconda metà dell’800 quando il Regno d’Italia decise di costruire sulla sommità del parco, a circa 60 metri d’altezza, uno dei 14 forti di difesa della città di Roma. Durante gli scavi emersero reperti straordinari: pozzi, cisterne, ville e perfino la tomba di un bambino. La scarsa coscienza archeologica dell’epoca e la necessità di concludere in fretta un’opera imponente, cancellarono per sempre il ricordo di questa civiltà. Nacque però una maestosa costruzione di guerra, chiamata Forte Antenne, composta da una grande piazza d’Armi, 160 stanze, magazzini e corridoi. Ma, appena pochi anni dopo, l’avvento dell’aviazione e le nuove tecnologie belliche resero inutile il Forte che venne abbandonato. Nel periodo della seconda guerra mondiale, qui fu ospitato il Reggimento dei radiotelegrafisti; poi nel 1958 il Demanio militare cedette l’edificio al Comune di Roma che ci costruì il primo grande campeggio della città. Ospiterà i visitatori delle Olimpiadi del 1960 e poi rimarrà in funzione fino al 1980. Da allora, sia il Forte sia la zona sono precipitati nell’abbandono.

Negli ultimi 40 anni, il Forte è stato più volte occupato e sgomberato. Prima un campo nomadi, poi alcuni senza tetto che avevano vi avevano installato perfino cucine a gas.

Oggi l’area è immersa in un degrado senza precedenti. La splendida pineta, trascurata per anni, ha sofferto il peso della neve dello scorso febbraio e il Campidoglio ha proceduto a tagliare tantissimi alberi, lasciando sul posto le chiome essiccate. La strada che sale sul monte è costellata di buche e dossi. E il Forte è sbarrato con gli intonaci divorati dalla vegetazione spontanea e il ponte levatoio corroso dalla ruggine.

Le potenzialità di questo posto magico sono infinite. Un resort con magnifici affacci sulla città, oppure un ostello della gioventù o anche un luogo per l’aggregazione e la produzione di cultura. Basta immaginare quanto possa essere suggestiva una mostra allestita in un bosco urbano, all’interno di antiche mura.

Nel corso degli anni, progetti e idee sono rimasti sempre sulla carta: l’Università Luiss avanzò l’ipotesi di farne la propria sede; il Quirinale avrebbe voluto installare qui il quartier generale dei Corazzieri; la Asl aveva proposto un centro per la cura dei malati di Alzheimer. Il costo per il recupero, non solo del Forte ma del parco circostante, è molto elevato e le condizioni generali di Roma fanno fuggire qualsiasi investitore assennato.

Da pochi mesi, il Municipio Roma 2 ha ottenuto dal Campidoglio la gestione dell’edificio. Lo scorso 18 dicembre ha pubblicato un avviso per invitare i soggetti interessati a presentare progetti per il recupero. Entro la fine di giugno le idee pervenute verranno elaborate e a quel punto il Municipio potrebbe assegnare il Forte a uno o più vincitori di un bando pubblico. Ma le probabilità che tutto questo si realizzi sono scarse e l’area sembra condannata a restare incastrata nel tempo.

Filippo Guardascione

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VAL D’AGRI, ENI ALL’ASSALTO

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Mentre Matera si prepara a diventare Capitale europea della Cultura nel 2019, e tutta la Basilicata beneficia del boom turistico alimentato dall’attesa di questo evento internazionale, l’Eni dà l’assalto alla Val d’Agri con le sue trivelle petrolifere. A danno dell’ambiente e a rischio della salute della popolazione. Sembra quasi di assistere alla replica dell’operazione analoga che qualche anno fa mise in subbuglio il Val di Noto, scrigno del barocco siciliano.

Compresa fra i monti Sirino e Volturino, in provincia di Potenza, la Val d’Agri è una sub regione lucana che prende nome dal fiume Agri e ha una superficie di 1.405 chilometri quadrati. I primi giacimenti petroliferi in quest’area, considerata il giacimento su terraferma più grande d’Europa, furono scoperti già nella prima metà del Novecento. Ma lo sfruttamento è iniziato solo negli Anni Ottanta e oggi fornisce circa il 10% del fabbisogno nazionale.

Da tempo, però, la popolazione è insorta contro l’Eni (originariamente acronimo di Ente nazionale idrocarburi) in difesa dell’ambiente e della salute. Tant’è che ora il Gruppo petrolifero pubblico, fondato dallo Stato nel 1953 sotto la presidenza di Enrico Mattei, ha deciso di promuovere una controffensiva anche sul piano mediatico finanziando il mensile Orizzonti, idee dalla Val d’Agri, commissionato a Mario Sechi, già direttore del quotidiano romano Il Tempo. L’obiettivo è quello di informare l’opinione pubblica locale per convincerla che l’attività di estrazione non sporca e non inquina.

Fatto sta che il petrolio è notoriamente un combustile fossile nocivo e peraltro in via di esaurimento. Questa è l’era delle energie alternative, rinnovabili, “pulite”, come il sole e il vento. E ormai perfino la produzione automobilistica si va orientando sempre più verso i veicoli ibridi o elettrici. L’operazione dell’Eni, insomma, va contro la storia oltreché contro il turismo e lo sviluppo sostenibile.

Nella vicenda, non manca neppure un “giallo”. E in questo caso non riguarda i colori della bandiera con il cane a sei zampe della compagnia petrolifera. Nei mesi scorsi, il giornale di Bari La Gazzetta del Mezzogiorno, che pubblica anche due edizioni quotidiane di Potenza e Matera, ha dato notizia del ritrovamento di un memoriale autografo di Gianluca Graffa, ingegnere ed ex responsabile del Centro oli di Viggiano (PZ), morto suicida nell’agosto 2013 in circostanze misteriose. “Mi è stato imposto di tacere”, ha lasciato scritto fra l’altro il tecnico, descrivendo problemi tecnici nei processi di trattamento del petrolio estratto in Val d’Agri che sarebbero stati scoperti da un’inchiesta della magistratura, approdata nel 2016 ad arresti e sequestri d’impianti.

Interpellata dall’agenzia Ansa, la direzione dell’Eni ha parlato di «vicenda drammatica» e di «episodio molto triste». E in merito ai presunti “problemi tecnici” citati nel memoriale, l’Ente ha replicato: “Nel Centro oli sono sempre stati effettuati i necessari controlli e le verifiche ispettive già prima del 2012. Tutti gli interventi, non solo quelli sui serbatoi, sono stati gestiti sulla base delle evidenze tecniche e operative emerse nel corso degli anni. La documentazione degli interventi è stata da tempo presentata a tutti gli organi interessati, con i quali Eni collabora come sempre in maniera piena. Eni ha sempre condotto le proprie attività alla luce del sole, operando con totale trasparenza, e condividendo tutte le informazioni sulle attività, regolarmente autorizzate, in Val d’Agri”.

Antonio Sacco

ASSALTO A VILLA BORGHESE

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Già invasa da bici, tricicli e risciò; macchinette e bighe elettriche; pattini e monopattini, Villa Borghese rischia ora un assalto a cavallo in grande stile. Non si tratta più soltanto della parata storica dei Carabinieri né del concorso ippico che ogni anno si svolgono nella spettacolare cornice di Piazza di Siena. Bensì di un programma quadriennale che la Federazione italiana sport equestri, con la complicità del Coni presieduto da Giovanni Malagò, intende realizzare all’interno del parco pubblico più grande di Roma per ospitare gare e manifestazioni ippiche minori. Sarebbe un’occupazione permanente della Villa che lo Stato acquistò nel 1901 dai principi Borghese per donarla al Comune della Capitale, ma che in realtà appartiene a tutti gli italiani e non solo ai cittadini romani.

L’annuncio ha già suscitato la reazione di cento intellettuali che hanno firmato un manifesto contro un progetto che contrasta con il principio, sancito nella Carta di Firenze, secondo cui un giardino storico ha il valore di monumento. E in quanto tale, dunque, non può essere sottoposto a utilizzazioni estranee alla sua natura e alla sua destinazione originaria. Luogo di passeggiate, meditazione e libertà, Villa Borghese deve rimanere un “polmone verde” nel cuore di una città assediata dal traffico e dallo smog. L’organizzazione di un programma di eventi, a carattere sportivo e purtroppo anche commerciale, minaccerebbe la salvaguardia del verde e quindi la sua stessa sopravvivenza.

Fino a prova contraria i concorsi ippici sono, a tutti gli effetti, manifestazioni agonistiche, organizzate non a caso da una Federazione che fa parte del Comitato olimpico nazionale. Una volta all’anno si può anche tollerare che il tradizionale concorso ippico si svolga a Piazza di Siena. Ma già in quell’occasione una buona parte di Villa Borghese viene occupata da camion e furgoni per il trasporto dei cavalli, oltre che da auto di servizio, chioschi per la vendita di bibite e panini, transenne, strutture temporanee per tribune, biglietterie e quant’altro. E allora, sarebbe senz’altro più opportuno ospitare questi eventi all’interno di impianti sportivi, come s’è già fatto peraltro per il concorso ippico sponsorizzato da Longines che s’è svolto allo Stadio dei Marmi.

Lo Sport, quello con la S maiuscola, è un alleato naturale del verde e della salute. Ma con l’assalto a Villa Borghese il Coni rischia di tradire il suo ruolo e la sua funzione istituzionale. I cittadini della Capitale non possono essere espropriati di quel “polmone” che ancora la protegge dal traffico e dall’inquinamento.

OPERE BUONE PER MATERA

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Mancano ormai pochi mesi all’investitura di Matera a Capitale europea della Cultura 2019 e purtroppo la Basilicata registra ancora un record negativo di opere pubbliche incompiute, con 33 cantieri in cui i lavori non finiscono mai. È pur vero che a dicembre 2017 risultavano tre in meno rispetto all’anno precedente. Ma, come scrive Piero Miolla sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”, mancano i fondi per completarle oppure cause tecniche ne impediscono l’esecuzione definitiva.

Neppure la prestigiosa assegnazione di Capitale della Cultura, dunque, è bastata ad accelerare questi lavori infiniti. Eppure, in virtù del suo paesaggio e dello straordinario complesso dei Sassi, la città Matera è già diventata una méta privilegiata del turismo italiano e internazionale. E la Basilicata è, per di più, la prima regione dell’Italia meridionale a conquistare questo titolo.

Il dato sui ritardi dei lavori pubblici in corso è stato fornito dalla sezione regionale dell’Osservatorio dei Contratti Pubblici, Dipartimento Infrastrutture e Mobilità della Regione Basilicata, che ha trasmesso al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti l’elenco delle opere riferite all’anno 2017, per la pubblicazione sul portale nazionale Simoi (Sistema informativo monitoraggio opere incompiute). Per dieci di queste 33, in Basilicata si registra una percentuale di lavori eseguiti superiore al 50%, ma per più d’una i lavori non sono stati ancora avviati.

Allo zero per cento risultano lo stato di avanzamento dell’intervento di messa in sicurezza del raccordo ferroviario a servizio della Siderpotenza nell’area industriale di Potenza e i lavori per l’adeguamento sismico e la ristrutturazione della scuola di Grassano, nel Parco letterario intitolato a Primo Levi. Al 93,72%, invece, risultano eseguite le opere di ripristino e adeguamento funzionale della diga di Abate Alonia sul Torrente Rendina.

A Vaglio di Basilicata, l’incompiuta risulta essere l’Antiquarium: opera realizzata appena per il 10,19 per cento. A Spinoso,  lavori di una piazzetta parcheggio in corso Garibaldi sono quasi terminati (avanzamento al 93,74 per cento), per una spesa di 118.785 euro, ma l’opera non è ancora fruibile. È di proprietà del Consorzio per lo Sviluppo Industriale della provincia di Potenza, invece, il cantiere per i lavori di completamento funzionale delle opere di depurazione e smaltimento acque reflue con ricircolo, collegamento area industriale alla grande viabilità, nell’area industriale di Senise: quasi 2 milioni e mezzo di euro per un’opera a uso ridimensionato. A Bernalda, non è ancora terminata la costruzione dell’impianto natatorio: oltre 600mila euro per un’opera i cuoi lavori di realizzazione risultano al 68,32 per cento, tanto da renderla non fruibile. A Carbone, invece, ancora non completata la scuola media, i cui lavori sono in uno stato di avanzamento pari al 21,16 per cento. A Lagonegro, infine, l’opera incompiuta è quella relativa alla ristrutturazione di Parco Giada, i cui lavori sono al 58,61 per cento.

“Come si può vedere, quindi, ce n’è per tutti i gusti – conclude l’autore dell’articolo sulla “Gazzetta” – ma c’è poco da stare allegri: di lentezza e inefficienza, infatti, si muore. Così come di burocrazia e di mancanza di fondi”. E l’investimento sulla Cultura, aggiungiamo noi, è quello che assicura nel tempo il ritorno maggiore. Un danno per la Basilicata e per tutto il Mezzogiorno.

Luca Grimaldi

TORRE GUACETO, S.o.S OASI

«Visite guidate con autobus parcheggiati “vista mare” e attività di… giardinaggio all’interno della riserva naturale di Torre Guaceto».

A gridare allo scandalo è la federazione provinciale dei “Verdi” di Brindisi che ha descritto come un autentico scempio ciò che è accaduto nell’area protetta. «Due pullman di una ditta salentina – protesta Elio Lanzillotti, co-portavoce della predetta federazione -, dopo aver lasciato una scolaresca con la guida della riserva, sono stati parcheggiati direttamente sugli scogli sotto la Torre Aragonese, nella zona “A” di Torre Guaceto. Ma non finisce qui… Per poter passare nello stretto sentiero che attraversa la riserva terrestre, il pullman ha urtato le macchie che costeggiano la strada. Cosa, allora, hanno pensato di fare al ritorno? Per evitare altri danni hanno pensato bene di… “potare” canne e macchia mediterranea. Davvero non ci sono parole per definire questo irresponsabile scempio. E che nessuno osi parlare di errori. Il Consorzio di Torre Guaceto in passato non ha fatto sconti a nessuno applicando con grande “rigidità” le giuste regole dell’area protetta. Adesso si assumano le proprie responsabilità il presidente e la direzione della Riserva».

La denuncia dei “Verdi” di Brindisi fa il paio con la segnalazione di protesta fatta per lo stesso motivo da Massimo Lanzilotti (Ripartiamo dal Futuro), Marzia Bagnulo (Pd) e Vincenzo Radisi (Gruppo Misto): «Quest’ultimo episodio – affermano i tre consiglieri comunali di opposizione – sta a dimostrare, casomai ce ne fosse ancora bisogno, che la gestione del Consorzio di Torre Guaceto è allo sbando più totale e che c’è urgente bisogno di definire una nuova governance del patrimonio ambientale, paesaggistico di cui gode l’intero territorio. È da più di un anno che denunciamo quanto accade puntualmente in Riserva, ma purtroppo fino ad ora abbiamo avuto da parte del sindaco e dell’Amministrazione comunale di Carovigno solo tentativi per sminuire i gravi fatti che stanno accadendo.

Oggi dei pullman che giungono indisturbati vicino alla Torre, ieri una Porche, e poi i sequestri, prima del bar e poi del pontile. Il caos parcheggi. Per non parlare delle dimissioni dell’intero Cda e delle Commissioni di Inchiesta aperte a Roma. Insomma, urge un intervento fermo e risoluto prima che sia troppo tardi, Torre Guaceto non può essere un parco giochi o un luogo gestito per fare soldi in barba alla sua tutela e salvaguardia. Noi siamo interessati a tutelare e salvaguardare Torre Guaceto. Abbiamo l’impressione che il sindaco e la maggioranza siano invece interessati a tutelare chi la gestisce».

(da “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’8 maggio 2017 – www.edicola.lagazzettadelmezzogiorno.it)

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COLPO ALLA ZECCA

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Per più di un secolo, dal 1908 al 2010, ha ospitato gli uffici e le officine dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato: qui si coniavano le monete e si stampavano le banconote con la vecchia lira. Nello storico palazzo di piazza Verdi, a Roma, i lavori di ristrutturazione erano già iniziati da tempo, per trasformarlo in un hotel extra-lusso del gruppo cinese Rosewood, con 200 camere, un centro congressi, ristoranti, piscina, Spa e una cinquantina di residenze private. Ma ora la Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio ha detto stop: a quanto pare, nel corso degli scavi, sono emersi dal sottosuolo i soliti reperti storici, le gru sono state fermate e smontate, il cantiere è rimasto abbandonato.

La storia, purtroppo, si ripete. È la “maledizione dei coccetti”, come la chiamano comunemente i romani, che in passato ha già bloccato in più occasioni l’ammodernamento e lo sviluppo della Città eterna, dalla metropolitana all’Auditorium Parco della Musica. E che tuttora paralizza la riqualificazione degli ex Mercati generali, abbandonati da anni sulla via Ostiense, fra il quartiere Testaccio e la Garbatella.

Il “colpo” alla Zecca è in realtà un altro duro colpo allo sviluppo della Capitale. Basti pensare agli effetti sull’occupazione che il cantiere e la ricostruzione di questo grande complesso immobiliare avrebbero prodotto negli anni futuri. Chissà quanto tempo dovrà passare prima che i lavori possano riprendere, se mai verranno ripresi.

Ora, per carità, non c’è da mettere in discussione la legittimità dell’intervento con cui la Soprintendenza ha bloccato tutto. Ma è mai possibile che finora nessuno si sia mai accorto o preoccupato di nulla? Non si poteva intervenire prima che il cantiere fosse installato o comunque all’inizio dei lavori? Effettuare un sopralluogo preliminare o magari una serie di sondaggi nel terreno?

Ammesso pure che alla fine emergano dal sottosuolo reperti storici o archeologici, si può già scommettere che resteranno isolati e privi di manutenzione. Se cade a pezzi il Colosseo, e qualunque turista può sfregiarlo a suo piacimento, figuriamoci il Poligrafico dello Stato. Nel frattempo, la Capitale d’Italia rischia di perdere un’altra opportunità di rinnovarsi e di crescere.

Chiuso e recintato, oggi il palazzo della Zecca ha un aspetto decisamente spettrale. Sembra un monumento alla paralisi burocratica e amministrativa in cui versa tutto il Paese, sommerso da una valanga di carta bollata. Un paradigma della sua impotenza e della sua crisi. Tanto più che la ristrutturazione dell’antico edificio potrebbe favorire anche la riqualificazione di piazza Verdi e dell’intero quartiere circostante, poco distante da Villa Borghese: un grande parcheggio sotterraneo, per esempio, consentirebbe di eliminare le auto in sosta sulla sede stradale e di trasformare l’area in una zona verde, a beneficio del traffico, della lotta all’inquinamento e della salute collettiva.

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ELEZIONI, TEMPO DI CONDONI

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Lucia Annunziata stava per porgli la prima domanda nella sua trasmissione televisiva “In Mezz’Ora”, quando Silvio Berlusconi l’ha interrotta per precisare la propria posizione sul condono edilizio: “Non ho detto che sono a favore di un nuova sanatoria, ma che occorre individuare un alloggio alternativo per gli abusivi di necessità prima di buttare giù la loro casa”. In collegamento da Verona, Matteo Salvini evitava di rispondere ma la sua espressione tradiva un profondo dissenso rispetto alla posizione dell’ex premier sul condono. Il siparietto, andato in onda domenica 11 febbraio su Rai 3, è la conferma che la sanatoria edilizia è di nuovo tema da campagna elettorale. Non è la prima volta che, a poche settimane dal voto, fa capolino la proposta di condonare gli abusi per far cassa. E, probabilmente, anche in questa occasione si registrerà un picco di nuovi manufatti irregolari.

Il rapporto Ecomafie di Legambiente lo dimostra numeri alla mano. Ogni qual volta la politica ha messo sul piatto della campagna elettorale la parola “condono”, in tutto il territorio italiano sono riprese le costruzioni abusive. Viceversa, negli anni degli abbattimenti simbolici – basti pensare all’ecomostro del Fuenti sulla Costiera Amalfitana o a quello di Punta Perotti a Bari – il fenomeno si è ridotto sensibilmente.

Solo nel 2016, si sono registrati più di 17 mila abusi edilizi con una particolare concentrazione sulle coste. Record negativo in Puglia e Sicilia con 700 manufatti per chilometro quadrato, seguite dalla Calabria con 600. Il numero di abusi più alto in assoluto è riportato in Campania, Sicilia e Lazio, tre regioni martoriate dal mattone selvaggio. Ma è tutta Italia a soffrire per un fenomeno che non ha eguali nel resto d’Europa. Sempre secondo il rapporto Ecomafie 2017, tra il 15 e il 18% di tutte le nuove costruzioni realizzate nel 2016 è completamente abusiva.

Roma, l’unica grande capitale occidentale dove un terzo delle costruzioni è sorto spontaneamente, non è riuscita neanche a incassare le oblazioni delle precedenti sanatorie. Dal primo condono del 1985 a oggi, su 400 mila richieste, il Campidoglio ne ha esaminate solo 180 mila: in 33 anni neanche la metà, provocando una perdita secca di un miliardo di euro per le casse capitoline. Nell’Ufficio Condono Edilizio di via di Decima, sono rimasti 50 dipendenti sui 300 iniziali e rilasciano circa 11 mila sanatorie l’anno. Non va meglio in altre città: anche Napoli e Palermo hanno avuto grandi difficoltà a smaltire l’arretrato. Secondo uno studio realizzato nel 2016 da Sogeea spa, nei 116 comuni capoluogo italiani ci sono ancora un milione e 100 mila pratiche arretrate che comportano per lo Stato centrale un mancato incasso di 1,8 miliardi di euro e molto di più per i singoli comuni.

La storia che i condoni servono a portare denaro fresco nelle casse pubbliche, insomma, non sta in piedi. L’annuncio della politica serve solo a recuperare voti. Forse non è una coincidenza che esattamente cinque anni fa, l’8 febbraio del 2013, sempre durante la trasmissione di Lucia Annunziata che allora si chiamava “Leader”, Berlusconi dichiarò: “Se gli elettori finalmente mi daranno la maggioranza, solo a me e al mio movimento Popolo della Libertà, farò immediatamente un condono tombale e quindi anche un condono edilizio”. Sebbene quelle elezioni, come è noto, non furono vinte dal centro-destra, il senatore Ciro Falanga di Forza Italia (poi passato in Ala) presentò una proposta di legge che avrebbe rivoluzionato i criteri con i quali venivano decisi gli abbattimenti, stabilendo che le case abitate devono essere demolite per ultime. Di fatto sarebbe stato un altro condono. La legge Falanga venne poi accantonata a causa delle proteste di ambientalisti e altre forze politiche. Il centro-destra, aveva comunque già emanato due condoni nell’arco dei suoi mandati di governo: la legge 724 del 1994 e la 269 del 2003.

I condoni non solo non hanno portato i guadagni sperati allo Stato e ai Comuni, ma anzi hanno aggravato le spese per questi ultimi. Portare servizi quali fognature, acqua potabile, trasporti pubblici e illuminazione nelle zone di edilizia spontanea si è rivelato, infatti, un costo enorme. Inoltre l’edificazione abusiva costa circa il 40% in meno dell’edilizia regolare e provoca una concorrenza sleale nei confronti dei costruttori, falsando il mercato.

C’è poi il tema della sicurezza nei cantieri: la maggior parte degli incidenti sul lavoro avviene in cantieri abusivi. Per non parlare dello smaltimento dei materiali di risulta che viene effettuato senza alcuna attenzione.

Sul dissesto idrogeologico provocato dall’abusivismo edilizio si sono sprecati fiumi di inchiostro e basterà qui ricordare la tragedia dell’Hotel Rigopiano o la bomba a orologeria posta sotto migliaia di case abusive costruite alle pendici del Vesuvio.

In un Paese in cui il consumo di suolo è di tre metri quadrati al secondo, con una media doppia rispetto all’Europa, tornare a parlare di condoni è irresponsabile e miope. Una classe politica davvero attenta alla tutela del nostro territorio dovrebbe sottrarre ai Comuni la responsabilità degli abbattimenti e affidarla alle prefetture. I politici locali, infatti, sono sottoposti a pressioni elettorali molto forti e quasi mai riescono a portare avanti programmi di bonifica e messa in sicurezza del territorio.

Il Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile dell’Istat (Bes 2016) denuncia un “deciso rialzo del tasso di abusivismo” e stima che “in Campania, ogni 100 nuove costruzioni, 63,3 siano illegali”. L’ipocrita abitudine di piangere lacrime di coccodrillo in seguito ai disastri che vedono coinvolte case abusive non risparmia nessuna forza politica. Dopo il terremoto di Ischia dell’agosto scorso, il leader del M5S Luigi Di Maio se la prese con Forza Italia e Pd per le sanatorie da loro promosse, ma pochi giorni prima il candidato pentastellato alla Regione Sicilia, Giancarlo Cancelleri, promise che non avrebbe abbattuto le case costruite per necessità. In campagna elettorale, un condono si promette sempre.

Filippo Guardascione

LA VENEZIA DI TINTORETTO UN DOCU-FILM DI SKY ARTE

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Nella pittoresca e suggestiva cornice di Venezia, città d’arte per eccellenza, patrimonio mondiale dell’Umanità – Unesco, è ambientato uno straordinario docu-film realizzato da Sky Arte con un’esclusiva produzione internazionale per l’anniversario dei cinquecento anni dalla nascita del grande pittore Tintoretto. Da Palazzo Ducale all’Archivio di Stato, da piazza San Marco alla Scuola di San Rocco, la vita di Jacopo Robusti (1519-1594), figlio di un tintore, viene raccontata nell’atmosfera del Rinascimento funestata dalla drammatica peste che tra il 1575 e il ’77 sterminò gran parte della popolazione, mentre la Serenissima conquistava il suo dominio marittimo e diventava uno dei porti mercantili più potenti d’Europa.

“Tintoretto, Un Ribelle a Venezia” è un documentario ideato e scritto da Melania G. Mazzucco, con la partecipazione straordinaria del regista Peter Greenway, narrato dalla voce dell’attore Stefano Accorsi. Prima di essere trasmesso in televisione sulla tv satellitare, il film sarà proiettato nelle nostra sale cinematografiche soltanto tre giorni: il 25, 26 e 27 febbraio (elenco su nexodigital.it). E dopo il debutto italiano, verrà distribuito nei cinema di tutto il mondo.

Artista spregiudicato e inquieto, animato da un grande senso d’indipendenza e di libertà, Tintoretto si confrontò con due eterni rivali, altri giganti della pittura come Tiziano e Veronese. I primi anni della sua formazione li trascorse nella bottega del padre. Poi si dedicò ai suoi capolavori, realizzando la sua più grande opera: il ciclo di dipinti della Scuola Grande di San Rocco, una serie di teleri che rivestono i soffitti e le parte della confraternita. A quell’epoca, nemmeno Michelangelo nella Cappella Sistina, poteva vantarsi di aver firmato ogni dipinto all’interno di uno stesso edificio.

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Ad accompagnare lo spettatore attraverso le vicende di Tintoretto, saranno chiamati numerosi esperti come gli storici dell’arte Kate Bryan, Matteo Casini, Astrid Zenkert, Agnese Chiari Moretto Wiel, Michel Hochmann, Tom Nichols e Frederick Ilchman, curatore della mostra “Tintoretto 1519-1594” di Palazzo Ducale, le scrittrici Melania G. Mazzucco e Igiaba Scego, le restauratrici Sabina Vedovello e Irene Zuliani, impegnate nel restauro delle Due Marie di Tintoretto.

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Il documentario illustrerà infatti anche le analisi dettagliate che permetteranno a una squadra italiana di restaurare due capolavori di Tintoretto: “Maria in meditazione” (1582 – 1583) e “Maria in lettura” (1582 – 1583). Con il sostegno di Sky Arte, le due tele saranno restaurate prima di essere esposte all’interno della mostra monografica di Tintoretto che si aprirà quest’anno alla National Gallery of Art di Washington, in occasione dell’anniversario dei cinquecento anni dalla nascita dell’artista.

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TOSCANA, CASE COLONICHE S.O.S.

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Sono oltre quattrocento le Leopoldine da recuperare, splendide case coloniche della Val di Chiana, simbolo della rinascita agricola di quella terra e lascito di un uomo illuminato: il granduca Pietro Leopoldo. Era un freddo ottobre del 1769 quando il granduca arrivò a Bettolle, Acquaviva, Montecchio e altre frazioni che fino ad allora non aveva mai visitato. Si rese conto subito delle condizioni malsane nelle quali vivevano i contadini: case umide, fondamenta fragili, stalle troppo vicine alla cucina e alle camere da letto. Abitazioni prive di acqua dei pozzi e senza aree di stoccaggio per il grano.

Decise così di chiamare i migliori ingegneri toscani e progettò, assieme a loro, un nuovo modello di abitazione: case alte, forti, con tutti i comfort più avanzati per l’epoca. Non era solo una rivoluzione edile, ma soprattutto una riforma sociale. Una prima versione dei diritti del lavoro e della salubrità dei luoghi.

Quelle case presero il nome di Leopoldine, in onore del suo ideatore che aveva, tra l’altro, voluto la bonifica della Val di Chiana per farne uno dei terreni più fertili d’Italia. La tipica Leopoldina doveva essere eretta su muri spessi almeno 50 centimetri, per garantire riparo dal freddo di inverno e dal caldo d’estate. Al piano inferiore le stalle sarebbero state ben separate dal resto dell’abitazione: quella per i muli esposta a nord, perché patiscono il caldo; quella per i cavalli e i buoi esposta a sud per farli crescere più vigorosi. Al primo piano, le camere da letto con una grande cucina al centro, in modo che il calore del focolare potesse riscaldare le zone circostanti. Tutte le aree della casa dovevano essere ben ventilate e intonacate di bianco. Sotto al tetto una colombaia che fungeva anche da isolamento termico. All’esterno l’aia e un patio coperto per i lavori artigianali, mentre le scale dovevano essere sempre riparate dal gelo e dal sole grazie a un’ampia tettoia.

Il granduca Leopoldo di Lorena fu insomma il primo vero “architetto del lavoro” dell’epoca moderna. Tanto che le sue case coloniche sono considerate uno dei primi esempi di “architettura dell’utile”, che si contrapponeva all’effimero del passato. Grazie alla sua riforma edile, come potremmo definirla, la febbre malarica e le altre malattie si dimezzarono in meno di dieci anni.

Ancora oggi, attraversando le splendide colline toscane, punteggiate dai cipressi e dalle ginestre, le Leopoldine restano protagoniste. Alcune sono state trasformate in agriturismi, ristoranti, resort, ma altre – purtroppo la maggioranza – stanno andando in rovina. Da più parti è stato lanciato un appello per il recupero di questo patrimonio storico, simbolo di una cultura contadina che non c’è più. Alla fine del 2016, con un protocollo voluto dalla regione Toscana, dieci comuni si sono impegnati a salvaguardare le costruzioni in condizioni di maggior degrado. Cortona, Montepulciano, Arezzo, Castiglion Fiorentino, Civitella Val di Chiana, Foiano, Marciano della Chiana, Monte San Savino, Torrita e Sinalunga hanno aderito al protocollo, ma finora gli interventi concreti si contano sulle dita di una mano. I fondi comunali scarseggiano, per cui è necessario l’intervento dei privati che devono però rispettare i criteri previsti nel protocollo: in caso di cambio di destinazione, non più del 60% della superficie può essere destinato a uso residenziale, mentre le superfici di eventuali appartamenti ricavati all’interno non dovranno essere inferiori a 100 metri quadri.

Lo scorso 19 gennaio, il consorzio Bonifiche Ferraresi ha annunciato il recupero di 21 incantevoli Leopoldine della Val di Chiana. Si tratta di nuove strutture ricettive e residenziali che si inseriranno nei circuiti del turismo culturale ed eno-gastronomico della Toscana. Oltre alla valorizzazione architettonica, il progetto darà lavoro a quasi un centinaio di persone.

C’è da sperare che su questo esempio altri imprenditori vogliano salvaguardare non solo l’immagine delle valli toscane, ma anche la memoria di un piccola-grande rivoluzione.

Filippo Guardascione

 

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