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Bella Italia, amate sponde

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Apriamo questo nuovo sito con la storica e suggestiva fotografia che l’astronauta italiana, Samantha Cristoforetti, ha scattato dallo spazio durante la missione Futura, offrendoci un’immagine tanto reale quanto inedita della nostra Penisola. Una donna che è diventata un “simbolo di eccellenza” per il nostro Paese, come ha detto l’ex presidente Giorgio Napolitano, nel suo ultimo messaggio di Capodanno.

L’abbiamo chiamato “Amate sponde”, questo sito, riprendendo un verso dalla famosa poesia di Vincenzo Monti, intitolata Per la liberazione dell’Italia: “Bella Italia, amate sponde/ pur vi torno a riveder!/ Trema in petto e si confonde/ l’alma oppressa dal piacer”. Ed è stata per noi una coincidenza tanto più gratificante che il nuovo presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, declinando i diritti costituzionali nel suo discorso d’insediamento, abbia voluto ricordare fra l’altro che “garantire la Costituzione significa amare i nostri tesori ambientali e artistici”.

La “liberazione dell’Italia”, in questo caso, vuol dire la liberazione da tutti i vincoli, da tutti i “lacci e lacciuoli” – per usare una celebre espressione di Guido Carli – che opprimono il nostro immenso patrimonio storico e culturale. Pareri, permessi, divieti, concessioni, licenze, appelli, ricorsi e controricorsi che quel mostro chiamato burocrazia impone al Belpaese. Una valanga di carta bollata che si riversa su monumenti, palazzi, ville, chiese, conventi, certose e castelli, impedendone spesso il recupero o il restauro.

Non basta conservare e tutelare – come pure è doveroso fare – questo straordinario deposito di Beni comuni che abbiamo ricevuto in eredità attraverso i secoli. Occorre anche valorizzarli. Ciò significa manutenerli, curarli, riportarli al loro stato originario e al loro antico splendore. E magari, riqualificare così il territorio su cui insistono, per “sfruttare” – nel senso migliore del termine – tutte queste risorse, anche al fine di rilanciare il turismo e l’occupazione per combattere la crisi economica che attanaglia il Paese e in particolare le regioni meridionali.

Abbiamo il più alto numero di Beni considerati dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità, ma siamo precipitati all’ultimo posto nella graduatoria europea della spesa pubblica per la Cultura: appena l’1,1% contro una media del 2,2 nell’Ue. Troppo spesso, però, la mancanza  di fondi pubblici diventa un alibi o un pretesto per non fare niente, per lasciare tutto come sta, per rinunciare a intervenire e a trovare soluzioni alternative.

“La nostra immensa ricchezza è anche il nostro principale ostacolo alla crescita”, scrive Yoram Gutgled, consigliere economico di Matteo Renzi, nel suo libro “Più uguali, più ricchi” (Rizzoli). E aggiunge: “Un numero quasi illimitato di attrazioni da promuovere rende quasi impossibile riuscire a sostenerle complessivamente e fornire a esse infrastrutture adeguate. Occorrerebbe quindi fissare delle priorità e fare delle scelte ma, come spesso accade nel nostro Paese, prevale l’immobilismo”. E allora, se lo Stato non è in grado di fare fronte a tutte queste necessità e a queste spese, ben vengano i privati: mecenati, enti, banche, fondazioni, che possano integrare le scarse risorse pubbliche e diventare magari “tutor” di un palazzo, di un monumento o di una chiesa.

“Amate sponde” nasce con questo programma, con l’intento di favorire la “liberazione dell’Italia” e di contribuire a valorizzare, cioè dare più valore,  al nostro patrimonio storico, artistico e culturale. Il sito ospiterà perciò “Progetti di riqualificazione del territorio italiano” da qualunque parte provengano: privati cittadini, circoli, associazioni, enti pubblici o studi professionali d’ingegneria e architettura. Sarete soprattutto voi a farlo, insieme a noi, inviandoci segnalazioni e proposte, foto e video, per documentare il degrado o la stato di abbandono dei singoli Beni e partecipare così attivamente al loro recupero.

IL PONTE DEI RECORD SUL FIUME TAGLIAMENTO

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I lavori sono durati poco più di un anno, per l’esattezza 379 giorni. E ora il nuovo viadotto sul Tagliamento, al confine tra Veneto e Friuli, è già diventato “il ponte dei record”: il simbolo di un’Italia che non si arrende e vuole progredire, ma anche un modello di efficienza e di rapidità per la ricostruzione del ponte di Genova, crollato alla vigilia di Ferragosto scorso, provocando la morte di 43 persone.

Il viadotto dell’A4 sul Tagliamento, inaugurato il 9 dicembre scorso, collega i due tratti dell’autostrada al di qua e al di là del fiume. Si tratta di un’arteria cruciale per il traffico fra l’Italia, l’Austria e la Germania verso Nord, attraverso il valico di Tarvisio; e verso il Centro Europa, via Trieste e Gorizia. Un traffico automobilistico di oltre 48 milioni di macchine nel 2018 (+2,6% rispetto all’anno precedente) e di oltre 12 milioni di mezzi pesanti (+6,3%).

Molto più basso del ponte Morandi, il nuovo viadotto corre a circa dieci metri di altezza sull’alveo del fiume, ma è più lungo di quasi mezzo chilometro (1.500 metri contro 1.100). Per realizzarlo, è stato necessario un investimento di 70 milioni di euro, con l’impiego di 70-80 operai. E in vista di un prossimo allargamento dell’A4 a tre corsie, è già in fase di costruzione un altro viadotto parallelo per fare un “miracolo-bis”.

A parte la funzionalità della nuova struttura per il traffico su ruota, il “ponte dei record” ha anche una doppia valenza paesaggistica e turistica. Con una lunghezza di 170 chilometri e un bacino di quasi 3.000 chilometri quadrati, il Tagliamento è il fiume più importante del Friuli-Venezia Giulia ed è l’unico di tutto l’arco alpino e uno dei pochi in Europa a preservare una morfologia a canali intrecciati. Per l’unicità del suo ecosistema, viene chiamato anche “il Re dei fiumi alpini”. La sua sorgente si trova a 1.195 metri di altitudine, nel Comune di Lorenzago di Cadore, nella provincia di Belluno al confine con quella di Udine.

Con il nuovo viadotto, destinato a essere presto raddoppiato, tutta la zona acquisterà anche una maggiore attrattiva per il turismo, sia estivo sia invernale. E così il progetto costituirà un punto di riferimento per la ricostruzione del ponte di Genova, nella speranza che i tempi vengano rispettati e l’opera possa essere completata – come ha promesso il ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli – per il prossimo Capodanno.

FINMECCANICA DIMENTICA LA FONTANA DI MITORAJ

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A caval donato, come dice il proverbio, non si guarda in bocca. Ma qui basta guardare la faccia per rendersi conto del problema. E il caso è sotto gli occhi di tutti.

La “Fontana della Dea Roma”, scolpita da Igor Mitoraj e donata da Finmeccanica al Comune di Roma nel 2003, versa in condizioni pietose nei pressi di ponte Risorgimento, proprio all’inizio di quel viale Mazzini dove ha sede la Rai. Un’opera d’arte abbandonata alle intemperie, sporca di smog, priva di qualsiasi manutenzione.

Eppure, a pochi passi si trova anche l’edificio che in piazza Monte Grappa ospita Finmeccanica, il primo gruppo industriale italiano nel settore dell’alta tecnologia e uno dei più grandi operatori internazionali della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza. Una holding con un fatturato di 14,66 miliardi di euro nel 2014 e un utile netto di 20 milioni. Il suo principale azionista è il ministero dell’Economia e delle Finanze.

Possibile mai che un colosso del genere non abbia i fondi per provvedere all’ordinaria manutenzione della Fontana di Mitoraj? Sarà pure che questa spetterebbe al Comune di Roma. Ma, ai tempi di Mafia Capitale, c’è poco da sperare che il Campidoglio si preoccupi di intervenire. Un gigante come Finmeccanica non dovrebbe trovare troppe difficoltà a offrirsi come tutor o come sponsor, almeno per un primo intervento di ripulitura, anche per tutelare un bene che ha donato a Roma e che ora appartiene a tutti i cittadini.

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NO, 359 VOLTE NO

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Da un capo all’altro della Penisola, dal Piemonte alla Puglia, dalla Tav (la linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione) fino al Tap (il gasdotto trans-adriatico), il “partito del NO” paralizza l’Italia, frenando il suo sviluppo e la sua modernizzazione. Sono 359 – secondo l’Osservatorio Nimby Forum per il 2016 – i progetti bloccati dalle associazioni e dai movimenti locali che si oppongono alla realizzazione di queste infrastrutture. Un fronte variegato che, in nome dell’ambiente e della natura, assedia i cantieri, presenta ricorsi al Tar, alle Regioni e ai Comuni, per impedire l’inizio o il completamento delle opere di pubblica utilità.

Si chiama appunto “Nimby” – com’è noto – l’effetto di chi impugna come una bandiera questo acronimo inglese: “Not in my back yard”, non nel mio cortile o nel mio giardino. Ora è vero che, prima delle cosiddette “grandi opere”, bisognerebbe fare le piccole opere che servono per la salvaguardia del territorio: dall’ordinaria manutenzione alla tutela dell’assetto idrogeologico, in particolare lungo le coste e i letti dei fiumi, contro la speculazione e la cementificazione selvaggia. Ma non per questo si può “ingessare” un Paese che, soprattutto al Sud, ha bisogno di nuove infrastrutture per crescere.

Dal 2015 all’anno scorso, invece, i contenziosi sono aumentati del 5%. Su questi 359 progetti bloccati, il 56,7% riguarda il comparto energetico e il 37,4% quello dei rifiuti. I motivi vanno dalle preoccupazioni per l’ambiente o il paesaggio e dalle paure per la salute (il 30,1%) fino all’amore per il proprio Paese e alla richieste dei cittadini di essere più coinvolti nei processi decisionali.

Fra gli impianti energetici, i più avversati sono le centrali elettriche a biomasse che usano come combustibile legna o vegetali (43 impianti) e le centrali eoliche (13 progetti). Per quanto riguarda le fonti di energia convenzionale, le contestazioni si concentrano soprattutto sulle ricerche di giacimenti di metano o di petrolio oppure sullo scavo dei pozzi. Un caso di risonanza internazionale è diventato quello del Tap, il gasdotto che dall’Azerbaigian approderà sulla costa pugliese, avallato dall’Unione europea perché d’interesse continentale: in Salento, il cantiere è ormai circondato dal filo spinato e presidiato dalle forze dell’ordine.

Nel settore dei rifiuti, mentre tutti invocano a parole la cosiddetta “green economy”, nei fatti poi scattano le opposizioni a livello locale per motivi ambientali o sanitari. No agli impianti per il riciclo, no all’uso dei rifiuti per produrre energia (37 casi), no alla discariche (30), no agli impianti di compostaggio per produrre concime dai rifiuti organici (20). Eppure, potrebbero essere una risorsa proprio per contribuire a promuovere l’economia verde.

MALPAESE, EMERGENZA CONTINUA

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Con sette milioni di cittadini e il 91% dei Comuni a rischio idrogeologico, il Malpaese è l’ultimo che può meravigliarsi per le vittime, i danni e le conseguenze devastanti provocati dalla recente ondata di maltempo che ha investito l’Italia. Dal Veneto alla Sicilia, dal Nord-Est al Sud fino alle Isole, è un’emergenza continua che dura ormai da molti anni. Una situazione cronica che minaccia l’intera Penisola e i suoi abitanti, la loro sicurezza e purtroppo la loro stessa sopravvivenza.

Nessuno parli, però, di “calamità naturali” o di “fatalità”. Certo, le precipitazioni atmosferiche degli ultimi giorni sono state eccezionali. Ma è l’effetto combinato del dissesto e dell’oltraggio all’ambiente, entrambi prodotti dalla mano dell’uomo, a determinare l’entità di questi disastri. Da una parte, l’assalto al territorio, a colpi di consumo del suolo, speculazioni edilizie, scempi e abusi, che nel corso del tempo ha reso l’Italia fragile e vulnerabile; dall’altra, l’inquinamento atmosferico e il riscaldamento del pianeta, a livello globale, che hanno amplificato a dismisura la gravità dei fenomeni naturali.

Pro quota, ne siamo tutti responsabili, chi più chi meno. A cominciare dai governanti e dagli amministratori locali che prima non hanno impedito questa manomissione ambientale, lasciando costruire case o palazzi abusivi e poi non li hanno demoliti, com’è avvenuto purtroppo per la fatale villetta di Casteldaccia in cui la furia dell’acqua ha sterminato un’intera famiglia di nove persone. Ma anche noi cittadini, ciascuno di noi, abbiamo le nostre colpe per uno “stile di vita” fatto di cattive abitudini, di indifferenza o incuria nei confronti dell’ambiente: fabbriche, auto e impianti di riscaldamento che avvelenano l’aria; consumi energetici dissennati e irresponsabili che “bucano” l’ozono, provocando l’effetto serra e il progressivo riscaldamento del pianeta; distruzione sistematica delle risorse prodigate da madre natura.

Ci sarà pure chi coltiva un “ambientalismo da salotto”, come dice sprezzantemente Matteo Salvini, vicepremier leghista di un governo che ha appena varato un condono edilizio per le case abusive di Ischia, collegio elettorale del vicepremier pentastellato Luigi Di Maio. Per non parlare qui delle altre sanatorie varate in passato da quel centrodestra di cui la stessa Lega era parte integrante. Ma l’ambientalismo, da salotto o da cucina, è l’unico antidoto contro l’incultura diffusa che giustifica e alimenta tali comportamenti. Non a caso chi scrive ha sempre parlato di “ambientalismo sostenibile”, cioè compatibile con le ragioni dello sviluppo e del benessere; un ambientalismo con i piedi per terra; costruttivo e praticabile. Soltanto una maggiore coscienza e consapevolezza dei rischi che corriamo potranno indurci a cambiare un modello economico-sociale che altrimenti porterà fatalmente il genere umano all’apocalisse e all’autodistruzione.

Sì, qualcuno potrà anche dire o pensare: non mi riguarda, se la vedrà chi verrà dopo di me, non vivrò tanto a lungo…e così via. Eppure, senza assumere qui toni predicatori, consiste proprio in questo l’esercizio di responsabilità a cui siamo chiamati: tutelare l’ambiente e salvaguardare la natura per noi stessi, ma soprattutto per i nostri figli e per i nostri nipoti. Difendere la Terra per difendere la vita, quella nostra e quella altrui.

Dissesto e inquinamento, dunque, come primo binomio dell’emergenza ambientale. Poi, prevenzione e manutenzione, come strumenti contro il degrado e la rovina del territorio. E infine, lotta all’abusivismo e demolizioni, per impedire o curare le ferite provocate dall’ingordigia e dalla rapacità dell’uomo. È su questi binari che deve procedere il nostro impegno collettivo, in modo da recuperare il più possibile l’equilibrio naturale.

Ponti che crollano, alberi che crollano, scale mobili che crollano…Ma in che Paese viviamo?! Occorre un grande Piano nazionale di tutela ambientale, con una vigilanza continua e una mobilitazione generale, regione per regione, città per città, Comune per Comune. Un’opera quotidiana, insomma, di prevenzione e di ordinaria manutenzione, per contenere e possibilmente ridurre l’avanzata del cemento; tutelare le coste; salvaguardare la campagna e la montagna; ripristinare il corso dei fiumi e dei torrenti.

Viene in mente, a questo proposito, il reddito di cittadinanza. Sappiamo bene che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe servire alla riqualificazione professionale e al reinserimento nel mondo del lavoro. Ma, in attesa che la produzione e l’occupazione ripartano, non sarebbe opportuno intanto utilizzare una parte di questi beneficiari per rafforzare la Protezione civile, affiancando la professionalità degli addetti e la generosità dei volontari? Per istituire un esercito di “operatori ambientali”, coinvolgendo anche gli immigrati senza lavoro e senza dimora? Per curare gli alberi, manutenere parchi e giardini pubblici?

Una volta eravamo il Belpaese. Dobbiamo proprio arrenderci e rassegnarci oggi a essere il Malpaese? Ne va della nostra identità, della nostra tradizione e della nostra immagine agli occhi del mondo. E ne va, purtroppo, anche del turismo che è pur sempre la prima industria nazionale.

Giovanni Valentini

(articolo pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno” e su “La Sicilia il 7 novembre 2018)

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STOP PLASTICA IN MARE LA CAMPAGNA TV DI SKY

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Si chiama “Waste Shark”, lo sualo mangia-rifiuti che può “ingoiare” anche bottiglie e buste di plastica, oltre al resto dell’immondizia, fra le barche ormeggiate nei porti. Ma non è un pescecane. Si tratta di un robot galleggiante che Sky Tg24 ha mostrato recentemente in televisione, mentre entrava in azione come “spazzino del mare”.

Nella sua lodevole campagna contro l’inquinamento prodotto dalla plastica, la pay tv satellitare si sta distinguendo per un impegno da autentico servizio pubblico. Questa, come sanno bene i naviganti e i bagnanti, è diventata ormai una vera piaga che deturpa l’ambiente nuocendo alla salute collettiva, ma anche alla flora e alla fauna. Un doppio danno, dunque, per l’equilibrio dell’ecosistema.

Mentre l’Unione europea dichiara guerra alla plastica monouso, annunciando lo stop entro il 2021 a tutti i prodotti “usa e getta”, Sky scende in campo all’insegna dello slogan “Un mare da salvare” (#UnMareDaSalvare). Già a maggio scorso l’emittente televisiva s’era mobilitata a fianco di Legambiente sulle coste italiane, per raccogliere i rifiuti e ripulire i nostri litorali. Da allora, trasmette quotidianamente uno spot particolarmente efficace, in cui un genitore si accinge a fare il bagno al suo bambino in una vasca colma di oggetti di plastica, producendo nei telespettatori un effetto-choc di denuncia e di ripulsa.

Si calcola che ogni giorno nel Mediterraneo vengono scaricate mediamente più di 700 tonnellate di rifiuti. Di questo passo, nel 2050 troveremo in mare più plastica che pesci. E purtroppo, non solo in superficie, ma anche in profondità. Basta pensare al fatto che la superificie della Terra è ricoperta per oltre il 70% da oceani di acqua salata, per valutare il disastro ambientale che incombe sull’intero pianeta.

BORGHI D’ITALIA UN TESORO NASCOSTO

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Con la legge approvata quasi all’unanimità dal Senato dopo ben tre legislature, l’Italia riscopre finalmente un tesoro nascosto: quello dei borghi disseminati nel Belpaese e spesso abbandonati dagli abitanti per mancanza di lavoro o di altre opportunità. Il provvedimento, di cui è primo firmatario Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente di Montecitorio, prevede stanziamenti per il recupero, la tutela e la valorizzazione di questo patrimonio storico e artistico che custodisce la nostra identità nazionale.

Per il 2017, il fondo iniziale sarà di dieci milioni di euro. Ma i finanziamenti verranno poi incrementati con 15 milioni di euro ogni anno dal 2018 al 2023, arrivando così a un ammontare complessivo di cento milioni. Serviranno a riqualificare i centri storici, a promuovere i prodotti locali e i poli multifunzionali per fornire servizi energetici, postali e scolastici, facendo leva innanzitutto sull’estensione della banda larga che consentirà collegamenti più veloci e potenti via Internet.

Sono 5.591 i “piccoli Comuni”, al di sotto dei cinquemila abitanti, che rappresentano il 69,9% dei Comuni italiani. Occupano il 54% del territorio nazionale, con un totale di 11 milioni di residenti, pari al 16,59% della popolazione complessiva (-20% in meno rispetto al 1971). Il più piccolo è quello di Moncenisio, in provincia di Torino, con appena trenta abitanti. Questi borghi possono essere una risorsa importante anche per il turismo alternativo, in cerca di ambienti e atmosfere più rilassanti rispetto alle grandi città afflitte dal traffico e dall’inquinamento.

Non è mancato neppure in questa occasione chi ha voluto fare polemiche, come il vicepresidente dell’Anci (l’Associazione dei comuni italiani), Francesco Baldelli, sindaco di Pergola (provincia di Pesaro e Urbino): “Ai piccoli Comuni, solo pochi spiccioli”, ha sentenziato, calcolando che i cento milioni divisi per il numero totale dei borghi corrispondono a 2.500 euro ciascuno. “Questa legge – ribatte Realacci – sarebbe utile e importante anche se stanziasse zero euro: i fondi potranno essere sempre incrementati e quelli disponibili saranno ripartiti a cominciare dai Comuni più disastrati. In ogni caso, i finanziamenti serviranno a innescare un processo di recupero per fermare e possibilmente invertire il trend dello spopolamento e dell’abbandono”.

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I DUE MICHELANGELO DAVANTI AL MOSÈ

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Michelangelo Buonarrotti visto e interpretato da Michelangelo Antonioni. Un grande scultore e un grande regista. Un genio dell’arte universale e un Maestro del cinema internazionale. L’incontro s’è ripetuto nella suggestiva atmosfera della Basilica di San Pietro in Vincoli, a Roma, per la proiezione del film di Antonioni “Lo sguardo di Michelangelo”, girato nel 2004 e restaurato ora da Luce Cinecittà e Lottomatica. Ed è stato, davanti al monumentale complesso del Mosè, un evento davvero emozionante.

In questo cortometraggio di 17 minuti da lui stesso firmato, Antonioni si fa riprendere mentre entra nella Basilica e visita con occhio appassionato l’opera più famosa di Buonarroti. A passi lenti e assorti, il regista si avvicina alla grande parete su cui campeggia la statua di Mosè, sfiora con le mani la figura di marmo bianco e ne tasta la trasparenza e l’intensità. La macchina da presa si sofferma più volte sullo sguardo del gigante biblico, come per catturare il battito di ciglia e il respiro. Solo immagini, accompagnate da suoni di fondo, senza parole. Un “racconto” vibrante che incanta magicamente lo spettatore.

Buonarroti rischiò ai suoi tempi di essere arrestato per aver fatto abbattere il muro al posto del quale ha scolpito il complesso artistico del Mosè con la tomba di Papa Giulio II della Rovere. Alle spalle di quella parete, Michelangelo volle ricavare una Cantoria che è tornata a ospitare per l’occasione, dopo quattrocento anni, un coro d’eccezione come l’ensemble vocale dell’Accademia di Santa Cecilia, formata da giovani fra i 15 e 21 anni. E attraverso la grande arcata che domina il monumento e le tre finestrelle sotto la volta, il pubblico ha potuto apprezzare la straordinaria acustica di questo ambiente con una prodigiosa sonorità che piove dall’alto.

Alla presenza del ministro dei Beni culturali e del Turismo, Dario Franceschini, l’incontro tra i due Michelangelo s’è rinnovato così a dieci anni dalla morte del regista ferrarese. Ma non è stata una commemorazione. Piuttosto una celebrazione di quella genialità italica che nell’arco dei secoli, da Buonarroti ad Antonioni, è riuscita a trasmettersi dalla scultura al cinema e alle altre arti per tramandare la “Grande Bellezza” del nostro Paese.

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Progetto Certosa contributo di “Aboca”

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Con un contributo liberale di “Aboca”, l’azienda di prodotti naturali per la salute, prende quota il progetto presentato dagli Amici della Certosa di Trisulti al FAI (Fondo Ambiente italiano) per la valorizzazione dell’antico monastero di Collepardo, in provincia di Frosinone, con la sua storica Farmacia del XVIII secolo. Per poter accedere ai fondi messi a disposizione dall’iniziativa “I luoghi del cuore”, nella cui graduatoria la Certosa s’è classificata al 32° posto in tutt’Italia e al secondo nel Lazio, era necessario garantire un co-finanziamento a fondo perduto. E il mecenatismo di Valentino Mercati, fondatore e presidente di “Aboca”, ha consentito adesso di raggiungere questo primo risultato, in attesa che il FAI scelga a ottobre i progetti vincitori.

L’obiettivo degli Amici della Certosa, e delle altre associazioni locali che hanno collaborato alla stesura del progetto (Naturnauti, Lega Ernica, Cavalieri di Montagna e Slow Food Lazio), è quello di avviare un programma di valorizzazione storico-artistica, naturalistica e turistica della splendida certosa di Trisulti e della sua raffinata Farmacia impreziosita da pitture del Settecento. Una perla del nostro patrimonio culturale, la cui importanza è stata sottolineata recentemente anche dal presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti: in seguito a un sopralluogo, Zingaretti ha promesso, insieme al presidente di Unindustria Frosinone Maurizio Stirpe, uno stanziamento regionale di 300.000 euro. Questi fondi verranno impiegati per il restauro degli affreschi della volta nella chiesa monasteriale e per il consolidamento di alcune coperture gravemente danneggiate dall’umidità.

Il progetto promozionale presentato dalle associazioni che da oltre un anno lavorano appassionatamente  e gratuitamente per la Certosa, punta a essere il preludio di un’azione duratura nel tempo. L’intento è quello di gettare le basi per costituire intorno al monastero un network che colleghi il territorio circostante, e magari l’intera Ciociaria, in difesa di un patrimonio culturale e ambientale che – se pienamente valorizzato – potrebbe rappresentare una valida risposta alla crisi economica, offrendo concrete possibilità di lavoro in loco.

La cifra richiesta al Fai per la realizzazione dell’iniziativa “Trisulti nel Cuore” ammonta complessivamente a 8.000 euro. Verrebbe impiegata per la creazione di un sito Internet, attraverso cui diffondere la conoscenza del monastero sul territorio nazionale; di una App per dispositivi mobili da utilizzare durante la visita e per l’installazione di pannelli didattici per il pubblico meno avvezzo alle tecnologie. Azioni, quindi, pensate e studiate nell’assoluto rispetto del luogo, della sua storia secolare e della sua fortissima vocazione spirituale.

All’appello degli Amici della Certosa, “Aboca” ha risposto positivamente mettendo a disposizione un co-finanziamento di 3.000 euro, ovvero più di un terzo della cifra totale richiesta al Fai. È importante ricordare come il monastero di Trisulti sia un bene di proprietà dello Stato Italiano, per cui nessuna contropartita commerciale è stata assicurata, promessa o garantita all’azienda di Sansepolcro (Arezzo) che ha deciso di contribuire all’iniziativa, partecipando con un ruolo esclusivamente da mecenate.

Ora, non resta che aspettare la decisione finale del Fai, nella speranza che “Trisulti nel Cuore” non resti soltanto un progetto sulla carta. Questa può diventare per la Certosa un’opportunità per uscire finalmente dal cono d’ombra in cui era caduta negli ultimi anni, a causa dell’indifferenza generale.

Valeria Danesi

ALLEGATI (CLICK PER VISUALIZZARE):

1. PROGETTO CERTOSA DI TRISULTI

 

 

FOTO:

 

DUE “GIOIELLI” IN CONCORSO

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Il futuro del magnifico Forte Antenne, incastonato tra i Parioli e il quartiere Salario della Capitale, è legato a quello del Casino Nobile di Villa Leopardi, un altro bene pubblico abbandonato da decenni. Per entrambi, il II° Municipio di Roma ha deciso di sperimentare un percorso di partecipazione civica. Si tratta in sostanza di un concorso di idee aperto ai cittadini dal quale dovrebbe uscire la proposta di utilizzo dei due immobili.

Un progetto interessante perché nuovo e mai sperimentato a Roma, ma probabilmente utopistico. E’ difficile, infatti, che le idee siano accompagnate da un finanziamento e il rischio è che tutto resti nel libro dei sogni. Si tratta di due beni di grande valore sia storico sia economico per i quali il difficile non è tanto individuare la destinazione, quanto trovare le risorse.

Oltre alla storia di Forte Antenne che “Amatesponde” ha già raccontato lo scorso aprile, è interessante accennare quella del Casino Nobile di Villa Leopardi, sulla via Nomentana. Espropriato alla famiglia Leopardi Dittajuti nel 1975, fu trasformato prima in sede della Circoscrizione e poi del locale comando dei Vigili Urbani. Dalla fine degli anni ’90 è in completo stato di abbandono: occupato più volte da nomadi e senza tetto, è stato sgomberato l’ultima volta il 20 aprile scorso. Nella nostra photogallery, si può vedere la grande quantità di materiale che è stata trovata all’interno e che gli uomini dell’Ama dovranno adesso smaltire.

L’amministrazione Veltroni, nel 2006, decise di assegnarlo a una fondazione benefica, la Scheerson, che avrebbe dovuto realizzare un asilo nido. La Fondazione fa capo alla Comunità Ebraica romana, ma tra i vertici della Scheerson e il presidente della Comunità sorsero dissidi sulla gestione del villino. Al termine di una battaglia giudiziaria, gli assegnatari decisero di rinunciare e il bene rimase così nella disponibilità del Campidoglio.

Il Dipartimento Patrimonio di Roma Capitale è proprietario di un’enorme massa di immobili e la sua gestione lascia molto a desiderare. È per questo che il II° Municipio ha chiesto l’assegnazione di due tra i beni più pregiati sul proprio territorio: Forte Antenne e Casino Nobile di Villa Leopardi. Ma, una volta ottenuta l’assegnazione, si è trovato di fronte al dilemma del loro uso e della loro valorizzazione. “Abbiamo deciso di chiedere suggerimenti ai cittadini – spiega Lucrezia Colmayer, assessore Municipale alla partecipazione – e a gennaio abbiamo pubblicato un bando con il quale chiunque poteva manifestare il proprio interesse e consigliarci”. Sono arrivate diverse proposte, ma non sono state ancora vagliate dagli uffici. L’obiettivo del Municipio è avviare una serie di incontri pubblici entro il mese di giugno durante i quali si potranno esaminare i singoli suggerimenti pervenuti. Poi, entro dicembre, dovrà essere redatto un documento della partecipazione che in sostanza scelga il progetto migliore. Un iter molto democratico e inclusivo sebbene lungo e forse poco concreto.

Nel frattempo Forte Antenne e il Casino Nobile cadono a pezzi. “Hanno bisogno di immediati interventi di consolidamento – conferma l’assessore Colmayer – ecco perché abbiamo chiesto al Campidoglio di inserirli nel decreto Art Bonus”. Si tratta, insomma, di trovare mecenati che sponsorizzino alcuni lavori di restauro grazie al recupero fiscale del 65% dell’importo donato. Una parziale apertura di Forte Antenne, per esempio, al momento sarebbe impossibile a causa della presenza di alcuni manufatti in amianto. La bonifica è costosa e le istituzioni sperano in un intervento privato.

Entrambi i beni sono vincolati dalla Sovrintendenza ai Beni Architettonici, per cui la loro destinazione deve essere compatibile con il vincolo. Eppure, per 30 anni Forte Antenne ha ospitato un campeggio che non si può configurare come attività consona a un vincolo. I tempi sono cambiati e adesso c’è più attenzione per la tutela dei beni culturali, ma l’abbandono non è mai la ricetta giusta. Vedremo se il percorso partecipativo ideato dal Municipio riuscirà a produrre un’idea concreta e un finanziamento reale.

Filippo Guardascione

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