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COLOSSEO SHOW un’arena da rifare

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Se il Colosseo è il monumento italiano più noto al mondo, l’ultima “querelle” sulla ricostruzione dell’arena può essere considerata la sintesi di quella sindrome culturale che è un impasto di conservazione e protezionismo. Ripresa recentemente dal ministro Dario Franceschini, l’idea di ripristinare il piano di calpestio originario su cui si svolgevano gli spettacoli dei gladiatori era stata lanciata nel luglio 2014 sulla rivista “Archeo” da Daniele Manacorda, professore di Metodologia e tecnica della ricerca archeologica all’Università Roma Tre. Non un giornalista o uno storico dell’arte, dunque, bensì uno studioso della materia particolarmente qualificato e autorevole.

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Apriti cielo! I talebani della cultura sono subito insorti contro il progetto di ricostruire in legno il piano dell’arena, per renderlo nuovamente calpestabile e realizzare un museo nei sotterranei ora a cielo aperto. E a maggior ragione sono scesi ora sul piede di guerra, dopo che Franceschini ha prospettato la possibilità di allestire in questo spazio “rappresentazioni uniche al mondo, con diritti tv sufficienti per restaurare tutta l’area archeologica centrale”.

È sintomatica la reazione di Giuliano Volpe, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali. “Ci vuole tutela – ha predicato – e ci vuole buona comunicazione che fronteggi la cattiva comunicazione, quella del sensazionalismo, dei misteri, della fanta-archeologia”. E a dimostrazione della sua personale capacità comunicativa, ha aggiunto che per evitare conservatorismi “servono anastilosi”: un termine tecnico che non è contemplato neppure nei più diffusi dizionari della lingua italiana, come il Garzanti o il Devoto-Oli, ma significa in pratica ricostruzioni, elemento per elemento, con i pezzi originali di un edificio andato distrutto.

Ecco una conferma, ove mai ce ne fosse bisogno, dell’atteggiamento elitario e burocratico che ispira larga parte dei nostri dirigenti culturali, a cominciare da numerosi Sovrintendenti. Per non lasciare dubbi, lo stesso Volpe s’è dichiarato contrario a trasformare l’area centrale dell’arena in un parco archeologico perché “sarebbe visitato soprattutto dai turisti e rischierebbe di diventare un non luogo che espelle i cittadini”. Capite? Un “non luogo”, un’attrattiva turistica, a danno della cittadinanza.

C’è da augurarsi, invece, che proprio nell’interesse della collettività il progetto di Franceschini proceda e venga realizzato rapidamente. Fin dalle origini, l’arena del Colosseo è sempre stata in realtà un luogo di spettacoli: cruenti e crudeli, certamente, ma pur sempre spettacoli popolari. Opporsi alle visite dei turisti significa avere una mentalità ottusa e retrograda. “Ricostruire l’arena com’è stata fino all’Ottocento – ha detto giustamente il ministro dei Beni culturali e del Turismo – è un modo per tutelare il monumento”, rendendolo appunto più accessibile e comprensibile. Un modello di valorizzazione, insomma, nel rispetto della storia e della cultura.

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“RESORT ITALIA” UN LIBRO-VERITÀ

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Perché Abu Dhabi si prepara alla fine del petrolio costruendo il museo più grande del mondo e noi chiudiamo il Colosseo alle quattro e mezzo del pomeriggio? La provocatoria domanda compare nella quarta di copertina di “Resort Italia”, un libro-verità di Lorenzo Salvia pubblicato recentemente da Marsilio, con un sottotitolo che recita: “Come diventare il villaggio turistico del mondo e uscire dalla crisi” (presentazione il 13 aprile a Roma, con il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e Sergio Rizzo, responsabile della Redazione economica romana del “Corriere della Sera”, libreria Arion – piazza Montecitorio 59).

Dal primo posto che deteneva nella graduatoria mondiale del Turismo, da qualche anno ormai l’Italia è retrocessa al quinto posto. E ciò nonostante il fatto che il nostro Paese possiede notoriamente il più grande patrimonio storico, artistico e culturale del pianeta. Eppure, il Turismo resta la nostra prima industria nazionale, la risorsa principale a nostra disposizione, il deposito di valori a cui attingere per rilanciare l’occupazione e l’economia nazionale.

Il saggio di Salvia tocca, dunque, un nervo scoperto della crisi italiana. “Il turismo – si legge nel risvolto di copertina – è il migliore degli export possibili: è l’unico comparto del Made in Italy che lascia da noi non solo il marchio ma anche la produzione, i lavoratori e gli stipendi”.

La nostra Grande Bellezza, celebrata nel film di Paolo Sorrentino con la magistrale interpretazione di Toni Servillo, rimane perciò la nostra maggiore ricchezza. Ma, come avverte l’autore di “Resort Italia”, da sola non basta più: “È arrivato il momento di passare dal ‘museo deposito’ al ‘modello Ikea’, per coltivare quella dimensione industriale del turismo e della cultura che finora abbiamo ignorato”.

Se la diagnosi di Salvia è certamente condivisibile, la sua prognosi non mancherà probabilmente di suscitare reazioni e polemiche negli ambienti più burocratici e corporativi come quelli delle varie Sovrintendenze, artistiche, archeologiche, paesaggistiche e via discorrendo. Non gli si può dare torto, però, quando osserva che “non è soltanto una questione di beni culturali: chi decide di venire in Italia lo fa non solo per vedere il Colosseo ma anche per tutto quell’insieme di fattori unici che rendono il nostro Paese famoso nel mondo, dal cibo alla moda passando per il design”.

Ecco, allora, la metafora di un “Resort Italia” per sollecitare una trasformazione di tutta la nostra economia in funzione dell’industria turistica e culturale. “Meglio un monumento pubblico ma in rovina – si chiede alla fine il libro – o un monumento gestito da privati ma restaurato e aperto ai visitatori?”. La risposta di “Amate Sponde”, già contenuta nel nostro editoriale d’esordio, può essere soltanto la seconda.

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Parco Nazionale delle CinqueTerre (foto di Mario Spalla - 2012)
Parco Nazionale delle CinqueTerre (foto di Mario Spalla – 2012)
Gran Sasso e Monti della Laga - Marche, Lazio, Abruzzo (Foto di Mauro Rinaldi - 2014)
Gran Sasso e Monti della Laga – Marche, Lazio, Abruzzo (Foto di Mauro Rinaldi – 2014)
Parco Regionale delle Tre Cime - Dolomiti di Sesto - Trentino Alto Adige (Foto di Riccardo Cocco Riccardo - 2011)
Parco Regionale delle Tre Cime – Dolomiti di Sesto – Trentino Alto Adige (Foto di Riccardo Cocco Riccardo – 2011)
Parco Nazionale dei Marche Sibillini - Marche-Umbria (Foto di Giovanni Dala - 2010)
Parco Nazionale dei Marche Sibillini – Marche-Umbria (Foto di Giovanni Dala
– 2010)

BENI CULTURALI LARGO AI PRIVATI

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amate-sponde-libro-montanariPiù che una recensione, è una stroncatura quella che – a firma di Pierluigi Panza – il Corriere della Sera ha dedicato al pamphlet di Tomaso Montanari, definito nell’articolo “storico dell’arte e critico militante”. Nel libro, intitolato “Privati del patrimonio” (Einaudi), l’autore lancia in sostanza un j’accuse contro quello che considera un attentato ai Beni culturali da parte dei privati, esponendo le sue tesi critiche.

“Non è accettabile – scrive fra l’altro Montanari –  la mercificazione a ogni costo”. E ancora, se il fine della trasmissione del patrimonio storico e artistico è la conoscenza, “lo Stato non deve prestare qualsiasi opera pubblica a qualunque mostra”; “non deve riconoscere abnormi contropartite in cambio di sponsorizzazioni”; o “adattarsi a fare da maggiordomo in fondazioni di cui è il massimo contribuente” oppure “consentire a uno stilista di disporre di un ponte di Firenze come sala da pranzo”. Qui il riferimento polemico appare rivolto indirettamente a Matteo Renzi che, da sindaco della città toscana, concesse per una sera l’uso di Ponte Vecchio per una cena di gala della Ferrari in cambio di un “affitto” di 100mila euro, più un contributo di altri 20mila per il restauro di un monumento, provocando qualche protesta fra i commercianti e i turisti.

Per quanto possano risultare in larga parte anche condivisibili, “tutte queste considerazioni – replica Panza sul Corriere della Sera – definiscono il perimetro di un alto ideale che trova casa nel migliore dei mondi possibili”. Osserva poi realisticamente l’autore dell’articolo: “Ma un ministro dei Beni culturali e gli operatori di settore di un Paese che sta svendendo aziende, lavoro…possono davvero operare tenendo conto di tutte queste indicazioni?”. E risponde all’interrogativo: “È difficile; inoltre credo che nel settore della tutela dei Beni non sia più tempo per pensare teorie o sovrapporre ideologie, perché l’unica via è quella del pragmatismo nelle regole (da cambiare), è il primum vivere per salvare i moribondi mutilati di un teatro di guerra”.

Siamo completamente d’accordo con l’articolista del Corriere. In un Paese con un debito pubblico di oltre duemila miliardi, e nel pieno di una crisi economica come quella che attraversiamo, continuare a sostenere che la tutela e la gestione dei Beni culturali debbano essere esercitate esclusivamente dallo Stato, “diventa una predicazione sotto le bombe”. Tesi di questo genere appartengono alla sfera dell’ideologia, dell’integralismo culturale o dell’utopia. Ma il peggio è che così si finisce per favorire, più o meno inconsapevolmente, l’abbandono e il degrado di tanti monumenti, chiese, palazzi, castelli e via discorrendo, per la manutenzione dei quali i fondi statali – pochi o tanti che siano – non basteranno mai.

 LINK, foto di Ponte Vecchio chiuso  

QUATTRO MILIONI PER 14 MONUMENTI

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Per l’Italia, e in particolare per il Sud, il turismo è la principale risorsa da sfruttare. E il patrimonio artistico e culturale rappresenta un immenso deposito a cui attingere. Sono manna dal cielo, perciò, i quattro milioni di euro per 14 monumenti finora inutilizzati nelle regioni meridionali, stanziati dalla “Fondazione con il Sud”.

Li prevede il bando “Il bene torna comune”, alla sua terza edizione. Ora questi monumenti potranno essere recuperati valorizzati con gli interventi proposti dalla comunità locale e da organizzazioni no profit in partnership con altre associazioni, imprese e istituzioni. Il bando scadrà il 14 luglio prossimo.

Tra i beni da recuperare, la maggior parte (sette) sono in Puglia: il Castello normanno-svevo di Sannicandro (Bari); la chiesa e il convento delle Olivetane a Bari; il Bastione di San Giacomo a Brindisi; il Palazzo Amati a Taranto; il convento dei Francescani neri a Specchia, il Palazzo Marchesale Belmonte Pignatelli a Galatone e la Distilleria Nicola De Giorgi a San Cesareo, tutti e tre in provincia di Lecce.

Cinque monumenti si trovano in Sicilia: Villa Manganelli a Zafferana Etnea (Catania), la chiesa della Madonna della Raccomandata a Sciacca (Agrigento), il Castello di Federico II a Giuliana (Palermo), i padiglioni 10 e 20 dei Cantieri culturali alla Zisa di Palermo. Gli altri due beni sono in Campania: Palazzo Macchiarelli a Montoro (Avellino) e Palazzo di Paolo V a Benevento.

I proprietari dei 14 beni hanno già stipulato un accordo con la Fondazione per concedere al soggetto responsabile del progetto che verrà selezionato la disponibilità dell’immobile per un periodo di almeno dieci anni. Le richieste di contributo non possono superare i 500mila euro, con una quota massima del 50% per i costi di ristrutturazione e restauro del bene.

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AREA DEL BRENTA PROGETTO TURISTICO

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È un progetto di marketing territoriale, imperniato sullo sviluppo del turismo, quello che la nuova associazione culturale “Territori del Brenta” intende promuovere nell’area pedemontana del fiume che attraversa il Trentino-Alto Adige e il Veneto per sfociare nell’alto Adriatico. L’obiettivo è quello di valorizzare e incrementare l’attrattività di una zona che comprende ben 19 Comuni. E per questo, i promotori dell’iniziativa intendono anche avviare l’iter per la costituzione di un “marchio d’area”.

Attraverso una partecipazione “dal basso” dei cittadini, il progetto dell’associazione “Territori del Brenta” punta a favorire una partnership tra i soci privati, le categorie economiche e gli enti pubblici locali. L’attività di marketing territoriale punta a realizzare un salto di qualità, per passare da un turismo di prossimità a un turismo più internazionale. Verranno promosse perciò azioni che permetteranno di realizzare un “Distretto della sostenibilità”, intorno a tre caposaldi: ambiente, turismo e sport.

Oltre alla rete museale, per la creazione di un “museo diffuso” nell’intero comprensorio, è prevista anche una rete cicloturistica sulla dorsale del Brenta e una pedonale con percorsi escursionistici fluviali e collinari. In questo modo, il turismo del Bassanese non dipenderà più da generiche strategie isolate, ma avrà una regia unica e condivisa aperta ai talenti del territorio.

GRANDI OPERE BUONE

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Con la nomina di Graziano Delrio a ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, c’è da sperare che si passi dalla teoria delle Grandi Opere alla pratica delle Opere buone. Vale a dire delle infrastrutture, come strade e autostrade, reti ferroviarie e a banda larga, porti e aeroporti, che possono servire allo sviluppo del Paese. E magari delle opere pubbliche da realizzare a costi equi e in tempi certi.

Al suo esordio, è stato lo stesso neo-ministro a dichiarare che “non esistono infrastrutture né grandi né piccole, ma infrastrutture che sono utili quando sono utili alla comunità”. E ha spiegato: “Non bisogna pensare che le infrastrutture siano importanti quando sono grandi o quando collegano grandi poli. Ci sono infrastrutture che sono necessarie alla vita della comunità, e quelle sportive o le nostre scuole lo sono; ci sono infrastrutture che magari fanno piccoli collegamenti, ma hanno grande efficacia nella vita delle persone”.

Nella retorica delle Grandi Opere, spesso s’insinuano interessi illeciti, grandi affari e malaffari. Più alto è l’importo dell’infrastruttura da realizzare, maggiori sono le occasioni di spreco e corruzione. Ma questo evidentemente non può essere un motivo valido e sufficiente per bloccare la crescita nazionale. Ben venga, allora, la riforma degli appalti pubblici all’insegna della trasparenza: tanto più se correggerà la prassi del “massimo ribasso”, dietro la quale si nascondono l’utilizzo di materiali scadenti o il ricorso a varianti in corso d’opera che allungano i tempi e fanno lievitare i costi.

>>>ANSA/DELRIO, ATTENTI A SOLDI PUBBLICI, FILO DIRETTO CON CANTONEAl neo-ministro, sono già arrivate le prime richieste dal fronte ambientalista. Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente, l’ha subito invitato a “ripartire dalle città che sono il nostro oscar”. E poi l’ha sollecitato a fare in modo che “L’Aquila sia finalmente simbolo di rinascita e sicurezza per tutti”. Ermete Realacci, presidente della Commissione Ambiente della Camera, gli ha opportunamente ricordato che “il futuro dell’Italia è anche edilizia di qualità, innovazione, riqualificazione, sostenibilità”.

Tra le “opere buone” da mettere in cantiere, c’è anche l’ordinaria manutenzione delle strade, degli edifici pubblici e privati, dei parchi urbani e delle altre aree verdi, delle coste e dei fiumi. La storia infinita delle frane, delle alluvioni, degli esondamenti, insegna che è sempre meglio prevenire piuttosto che risarcire i danni prodotti dai disastri ambientali, a parte il costo incalcolabile delle vite umane. E sappiamo che la maggior parte di queste rovine non sono prodotte dalla fatalità, bensì dall’incuria e dalla mano dell’uomo.

Prima di costruire, e di consumare altro suolo, bisogna dunque ri-costruire: cioè riqualificare il territorio e rigenerare il patrimonio immobiliare anche ai fini del risparmio energetico. L’esperienza degli eco-incentivi è stata molto istruttiva in tal senso, alimentando investimenti e occupazione. Ma, per agevolare questo percorso, occorre semplificare le procedure, accelerare le pratiche e spezzare i “lacci e lacciuoli” della burocrazia che troppo spesso blocca, impedisce o rallenta la ricostruzione del Paese.

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1. SCHEDA Grandi Incompiute

 

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OLTRE MILLE FIRME PER SALVARE LA CERTOSA

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Hanno superato quota 1.000 le firme della petizione online, lanciata dagli “Amici della Certosa” sul sito change.org, per chiedere a Papa Francesco di mantenere una comunità monastica a Trisulti (Frosinone), in modo da assicurare così la custodia e la manutenzione del convento, dopo la decisione di allontanare i monaci ultrasettantenni che ancora la abitano. A queste, ne vanno aggiunte altre 300 raccolte finora su carta.

“La caratteristica principale di Trisulti – scrivono fra l’altro i promotori – è quella di essere un’oasi dove si incontra Dio attraverso la comunione spirituale con la natura e il senso profondo della solidarietà. Ora questa importante realtà, monumento nazionale dello Stato italiano dal  1879, attualmente affidato ai monaci cistercensi, ridotti ormai in numero esiguo e molto anziani, corre il rischio della chiusura proprio perché i monaci verranno richiamati, a causa dell’età e delle condizioni di salute, in un’altra Abbazia. Per questo Le chiediamo, Santità, di INTERVENIRE PER MANTENERE A TRISULTI UNA COMUNITA’ MONASTICA, di qualunque ordine, maschile o femminile, perché possa continuare ad essere il faro di spiritualità e cristianità che è sempre stata”. La petizione si può firmare a questo indirizzo: https://www.change.org/p/papa-francesco-mantieni-una-comunit%C3%A0-monastica-a-trisulti?utm_campaign=responsive_friend_inviter_chat&utm_medium=facebook&utm_source=share_petition&recruiter=98693655

La Certosa di Trisulti s’è piazzata al 32° posto nella graduatoria nazionale dei “Luoghi del cuore”, compilata dai sostenitori del FAI (Fondo ambiente italiano), seconda nel Lazio e prima nella provincia di Frosinone. L’antico convento di Collepardo ha ottenuto 10.430 voti su un totale di oltre un milione e 600mila, distribuiti tra oltre 20mila luoghi segnalati. E ora gli “Amici della Certosa”, insieme a due associazioni locali, si sono impegnati a presentare al Fai entro il 9 giugno un progetto per la valorizzazione del monumento.

Costruito nel 1202 per volere di Papa Innocenzo III, nei pressi di una precedente abbazia benedettina, il monastero è passato nel corso dei secoli dai Certosini alla Congregazione dei Cistercensi. Monumento nazionale dal 1873, nonostante gli interventi di ristrutturazione e di restauro realizzati fino a una decina di anni fa, oggi questo straordinario complesso medioevale rischia di essere scoperchiato e di rimanere a cielo aperto.

A prima vista, incastonata nella fitta vegetazione dei Monti Ernici a 825 metri di altitudine, la Certosa appare in tutta la sua imponenza mistica e solitaria. E in realtà, con una superficie complessiva di circa 15mila metri quadri coperti, appare più un borgo che un convento. Ma è all’interno degli edifici che si possono vedere in diversi punti i tetti pericolanti, in parte già caduti sotto il peso della neve, sostenuti a malapena da assi e cavalletti: negli anni Settanta, i vecchi coppi di terracotta furono sostituiti da tegole meno resistenti e il ghiaccio le ha spaccate fino a provocare numerose infiltrazioni. Se non s’interverrà rapidamente, i crolli potrebbero ripercuotersi sui solai dei piani inferiori, causando danni ancora più gravi.

All’epoca del suo fulgore, la Certosa ospitava una piccola comunità di più di cento persone, tra preti, novizi e artigiani. Tant’è che, oltre alla chiesa barocca dedicata a San Bartolomeo (con gli affreschi danneggiati dall’umidità) e alla Foresteria in stile romanico-gotico, entro le antiche mura del complesso si trovano anche una Biblioteca con 36mila volumi e una splendida Farmacia del XVIII secolo, decorata con “trompe-l’oeil” realistici d’ispirazione pompeiana e arredata con mobili del Settecento: negli scaffali sono esposti ancora i vasi in cui venivano conservate le erbe medicinali e i veleni estratti dai serpenti per preparare gli antidoti. La volta a crociera della sala principale è stata affrescata da Giacomo Manco, mentre il delizioso salottino d’attesa è impreziosito dai dipinti dell’artista napoletano Filippo Balbi. Un gioiello di farmacia antica che meriterebbe magari il patrocinio di un tutor.

Ha scritto su “Repubblica” Giovanni Valentini: “Borgo, convento, seminario, scuola pubblica, méta di pellegrinaggio o di turismo alternativo, nella sua lunga storia la Certosa di Trisulti è sempre stata un centro di vita e di attività. La sua originaria vocazione culturale meriterebbe di essere ripristinata e coltivata, magari attraverso un programma di incontri, convegni, eventi, manifestazioni in grado di richiamare un pubblico interessato ai temi della spiritualità, dell’arte, della salute, dell’omeopatia o dell’erboristeria. E le sue strutture ricettive, dalla Foresteria alle vecchie celle dei seminaristi, andrebbero opportunamente riadattate per accogliere ospiti da tutto il mondo in cerca di silenzio, serenità e raccoglimento; oppure, gli appassionati di trekking, a piedi o a cavallo, e di mountain bike”.

Occorrerebbe, dunque, un progetto organico di conservazione e valorizzazione, per rivitalizzare questo splendido eremo, ad appena cento chilometri a sud di Roma, anche a costo di farne un centro di studi e convegni o perfino un relais. Altrimenti, la Certosa di Trisulti è condannata al degrado e all’oblio. E un altro pezzo della nostra storia e della nostra memoria collettiva sarebbe cancellato per sempre.

L’EMIGRAZIONE ITALIANA IN MOSTRA A PALERMO

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Quando parliamo di immigrati, regolari o meno, gli italiani – meridionali o settentrionali – non dovrebbero mai dimenticarsi di essere stati un popolo di emigrati. Prima di soccorrere e accogliere chi sbarca sulle nostre “amate sponde” da altri Paesi, dovremmo sempre ricordarci che è toccato ai nostri nonni o bisnonni sbarcare via mare in terre straniere. Siamo stati noi per primi, insomma, “L’orda” descritta dal giornalista del “Corriere della Sera” Gian Antonio Stella nel libro omonimo.

 Mentre l’Italia e in particolare la Sicilia sono alle prese con la forte ondata immigratoria che arriva dalle coste nord-africane, a Palermo si apre a proposito la mostra fotografica “Partono i bastimenti”, promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro Italia-Mediterraneo. Già allestita con successo a Napoli, a Cosenza, a Bari e in edizione ridotta presso il ministero degli Affari esteri a Roma, è dedicata alla storia dell’emigrazione italiana nelle Americhe. Quel “grande esodo” fu, secondo gli studiosi, il più rilevante movimento migratorio nella storia del mondo.

Ospitata dalla Fondazione Orchestra sinfonica siciliana e organizzata da Civita Sicilia, nella Sala gialla del Teatro Politeama, la mostra resterà aperta dal 16 aprile al 16 maggio. Curatore della rassegna Francesco Nicotra, direttore dei Progetti speciali NIAF (National geografic italian american Foundation), ente che ha dato il suo patrocinio all’iniziativa.

“La mostra, da me fortemente voluta e sostenuta fin dal suo esordio, approda finalmente a Palermo, mia città natale, che è stata sensibilmente interessata dal fenomeno dell’emigrazione allora, così come oggi lo è da quello massiccio e spesso drammatico dell’immigrazione”, sottolinea Emmanuele Emanuele, presidente della Fondazione Terzo Pilastro. E lui stesso aggiunge: “La Sicilia è stata l’ultima regione italiana a partecipare al grande esodo migratorio di fine Ottocento, ma è attualmente la regione che conta più emigrati all’estero. È un dato significativo che va non solo ricordato ma anche valorizzato, in quanto ha costituito la premessa di una grande crescita culturale per le nostre genti che oggi, a buon titolo, possono dire che l’Italia, anche per merito loro, è presente nel Mondo”.

Attraverso un percorso di foto e altri pezzi d’epoca, la mostra offre un suggestivo racconto della storia dell’emigrazione nelle Americhe: dalle partenze di folle di disperati sulle “carrette del mare” alle fine dell’Ottocento fino ai successi raggiunti in tutti i campi, soprattutto negli Stati Uniti, dai discendenti dei nostri emigrati. Una vicenda che si snoda attraverso i periodi più difficili del secolo scorso, come le due guerre mondiali, il fascismo e la grande crisi economica degli anni Trenta che vide milioni di emigrati italiani in lotta a fianco degli altri lavoratori americani.

Correda il percorso espositivo una ricca raccolta di documenti e oggetti originali: modelli in scala di navi storiche dell’emigrazione, passaporti di diverse epoche, biglietti e documenti di navigazione, riproduzioni di puzzle di Ellis Island, opuscoli di norme per gli emigranti, libri, giornali e oggetti delle Little Italy, insegne ed etichette di prodotti italiani degli anni Venti (pasta e pomodori). E poi lettere e foto rare, quadri ad acquarello e a olio di famosi transatlantici, poster delle compagnie di navigazione, orari di arrivi e partenze, valigie e bauli contenenti oggetti tipici degli emigranti, dai corredi agli strumenti musicali, dai libretti da messa al quadro del santo protettore di diversi paesi d’origine. Viene presentata anche una ricca collezione di “copielle”, cioè piccoli spartiti originali di canzoni, quasi tutte in dialetto napoletano e siciliano, in voga nella Little Italy nei primi decenni del Novecento, oltre a diversi bellissimi spartiti originali di tango realizzati da autori italiani, emigrati o discendenti di emigrati: nelle loro composizioni cantarono la vita di tutti i giorni nel nuovo mondo, passioni, illusioni e delusioni, ma anche la nostalgia per la Patria perduta.

Per la prima volta in una rassegna del genere, viene dedicato un focus a una categoria particolare di “emigranti”: le migliaia di soldati dello sconfitto esercito borbonico che nel 1861, da Napoli, furono imbarcati per New Orleans con la prospettiva di essere arruolati nell’esercito degli stati secessionisti del Sud, nella guerra civile americana. Un pagina poco conosciuta della storia italiana. Numerosi superstiti di quel conflitto immane scelsero di restare in America e possono considerarsi perciò tra i primi italo-americani. La loro partenza, non propriamente volontaria perché l’alternativa poteva essere una lunga prigionia nelle fortezze alpine del Piemonte, è ricostruita con un tocco di fantasia in una vetrina che ha il Vesuvio come sfondo e in primo piano, sul molo del porto di Napoli, i soldatini all’imbarco, sorvegliati dalle truppe di Re Vittorio.

Un’altra vetrina rappresenta la ricostruzione dell’arrivo a New York, il 14 maggio 1848, della nave “Carolina” proveniente da Palermo. All’entrata del porto il comandante Corrao, sostenitore dell’Unità d’Italia, ordinò di inalberare sul pennone più alto, per la prima volta negli Sati Uniti, il tricolore bianco rosso e verde. Il gesto fu accolto con grande entusiasmo dagli italiani di New York che riservarono all’equipaggio grandi festeggiamenti.

 Altre due vetrine sono dedicate alle guerre degli Stati Uniti combattute anche da emigrati italiani. Da quella per l’indipendenza dall’Inghilterra alla guerra civile, fino al secondo conflitto mondiale.

 Ma il “clou” della mostra è rappresentato da una teca che contiene il modello in scala ridotta e lo spaccato del famoso transatlantico “Giulio Cesare”. È la nave che negli anni Venti del secolo scorso portò in Argentina, con altri emigranti, la famiglia del futuro Papa Bergoglio.

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1. Prefazione del catalogo a firma del Prof. Emmanuele (Pres. Fondazione Roma)

 

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roma centro un vecchio rudere

Per motivi di lavoro, mi capita di passare quotidianamente davanti a un obbrobrio in pieno centro storico di Roma. All’inizio di via Flaminia, a pochi passi da piazza del Popolo, c’è un complesso diroccato e abbandonato. Dall’esterno, attraverso la recinzione, sembra un vecchio capannone commerciale o industriale.

Nessuno ha saputo darmi informazioni precise. Allora, qualche giorno fa, ho chiesto a un residente della zona di farmi scattare qualche foto dal suo balcone, per documentare anche dall’alto questa bruttura. Vi mando perciò le immagini riprese con il telefonino, nella speranza che qualcuno sia in grado di dare notizie.

È inconcepibile vedere un rudere del genere nel cuore di una città come Roma. Potrebbe essere ristrutturato e diventare una galleria d’arte, un piccolo museo o anche una discoteca o un ristorante. Altrimenti, se ciò non fosse possibile, il Municipio di Roma I prenda l’iniziativa di abbatterlo e ripulire quell’area, destinandola magari a verde pubblico.

 Pietro Botta (Roma)

 

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RIAPRE A MANTOVA LA “CAMERA PICTA”

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Era rimasta inaccessibile per tre anni, a causa del terremoto che nel 2012 aveva danneggiato la torre nord-est del Castello di San Giorgio. Si riapre al pubblico da oggi, 3 aprile, la celeberrima “Camera Picta” di Andrea Mantegna, detta anche Camera degli Sposi, nel Palazzo Ducale di Mantova. A fronte di tante prenotazioni già numerose, la visita potrà durare pochi minuti, ma è senz’altro un’occasione da non perdere per tornare indietro nel passato e ammirare da “sotto in su” questo capolavoro dell’arte rinascimentale, dipinto fra il 1467 e il 1474.

A dispetto del nome più comune che le è stato attribuito successivamente, la “Camera Picta” non è una stanza nuziale. Fu realizzata e adornata come un locale di alta rappresentanza della corte dei Gonzaga. Ma l’opera del Mantegna segnò ai suoi tempi una rivoluzione nella storia dell’arte, come primo esempio di una prospettiva verticale, affollato di putti, fanciulle sorridenti, un uomo di colore e un pavone blu.

Sullo sfondo, si può ammirare una veduta di Roma completamente immaginata e idealizzata dall’artista che non visitò mai la Città eterna. Tra le foglie di una finta colonna, spicca la testa dello stesso Mantegna, un autoritratto che “firma” il dipinto.

Negli ambienti del Castello, arricchiti da un nuovo allestimento, saranno esposti i pezzi della straordinaria collezione Romano Freddi (fino al 31 agosto). Si tratta di un ricco patrimonio di dipinti, bronzi, maioliche, armi e arredi che appartengono alla storia della corte mantovana. Biglietto d’ingresso a 12 euro per la visita completa (orari da martedì a domenica: 8,15-19,15 – lunedì chiuso – prenotazioni: www.ducalemantova.org)

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