S’intitola “Beni culturali ai privati: un flop storico” un articolo di Leonardo Bison apparso sul Fatto Quotidiano, in cui si racconta l’insuccesso del bando “rivoluzionario”: quello che fu indetto per la prima volta nel 2016, ma che a distanza di cinque anni s’è rivelato un fallimento senza aver prodotto alcuna “rivoluzione” nella gestione del patrimonio pubblico. Tutto cominciò con la storica Certosa di Trisulti (nella foto sopra), il monastero benedettino di Collepardo in provincia di Frosinone, di cui a suo tempo Amate Sponde aveva denunciato il degrado, anche con un’ampia documentazione fotografica. La gestione del complesso che ospita il monastero finì in mano alla Fondazione dei sovranisti della destra internazionale guidata da Steve Bannon, l’ex banchiere da investimento legato all’ex presidente americano Donald Trump. Finché, dopo tre anni di vertenze giudiziarie, il bene non è rientrato nella disponibilità dello Stato (nella foto sotto, una veduta interna).
In realtà furono 13 in totale gli immobili (castelli, chiede e ville) messi a gara per affidarli ai privati, ma sono rimasti quasi tutti chiusi. “La gestione del demanio con valore culturale – scrive il giornalista – non risulta però affatto normata: nel Codice dei Beni culturali si chiarisce soltanto che possono essere concessi servizi e beni, compatibilmente al loro carattere culturale, in cambio del pagamento di un canone”. Ma le norme sono vaghe e lasciano sospesi molti dubbi. A cominciare da un interrogativo fondamentale: chi gestisce un bene in concessione può usarlo per produrre.
Nel suo articolo, Bison cita il caso del FAI (Fondo Ambiente Italiano) che dal 2002 gestisce in concessione, senza bando, la Villa Gregoriana di Tivoli (nella foto sotto); i giardini della Kolymbetra di Agrigento dal 1999 e, pochi anni fa, ha ottenuto dalla Provincia di Lecce per trent’anni anche la concessione dell’Abbazia di Santa Maria di Cerrate, in Salento, fino al 2042. Secondo l’autore, “si autofinanzia con attività, visite, a volte affitti e produzione di prodotti agricoli”. E lui stesso aggiunge che “è solo un caso dei tanti, il più noto”.
Sta di fatto che per sei dei 13 beni coinvolti nell’operazione, non è arrivata nessuna offerta. Per due, sono arrivate offerte che non sono state accettate per difetti nella documentazione, come nel caso della Villa del Colle del Cardinale a Perugia, a cui era interessato l’Ordine dei Cavalieri di Malta. Per altri quattro, è arrivata soltanto un’offerta che rispetta i requisiti. E solo in un caso due offerte sono risultate ricevibili.
Per i quattro beni che hanno trovato un concessionario, la sorte non è stata delle migliori. Villa Giustiani a Bassano Romano, assegnata al FAI che però non l’ha rilevata in gestione, è rimasta allo Stato. La Chiesa di San Barbaziano a Bologna, affidata in gestione all’Associazione italiana cultura e sport (AICS) per 15 anni, è tuttora chiusa nonostante che lo Stato abbia stanziato circa 800 milioni di per finanziare i restauri (foto sotto). Il Castello di Canossa a Reggio Emilia è andato a un’associazione di volontariato, per un canone di 4mila euro all’anno, ma il sito web non viene aggiornato dal 2019. E infine, Villa del Bene a Dolcè (Verona) era andata alla Pro Loco, ma è gestita da un consorzio di imprese e associazioni.
“In sintesi – conclude l’articolo – le storie di successo sono poche mentre tanti dei vuoti che si sperava di coprire con la concessione sono ancora lì”. Da qui, dunque, la conclusione che chiama in causa direttamente le responsabilità del ministro Dario Franceschini: “Un nuovo regolamento che normi quando (e per quanto), come e perché si possa concedere un bene pubblico in gestione esclusivo appare necessario”. Altrimenti, il rischio è quello che vinca il miglior offerente, senza che risultino chiare le intenzioni, gli obiettivi e i progetti, in funzione della tutela e della valorizzazione dei beni culturali pubblici.