Sono stati 149, dal dopoguerra al 2018, gli eventi calamitosi nel nostro Paese per un costo totale di 310 miliardi di euro. I dati emergono dal rapporto “Natural disaster in Italy: evolution and economic impact”, compilato da Prometeia con le stime fornite dall’Associazione delle organizzazioni di ingegneria e di consulenza tecnico-economica, a cui il manifesto ha dedicato un ampio articolo firmato da Mario Di Vito. Ed è verosimile calcolare che lo Stato avrebbe speso molto di meno, anche in termini di vite umane, se invece di curare e ricostruire si fosse preoccupato per tempo di prevenire. Dalla stessa fonte si apprende che al momento si registrano 10 casi di emergenza aperti per eventi sismici; 12 per questioni di tipo ambientale, sanitario o ecologico; e ben 122 per fenomeni meteorologici avversi, aggravati dagli effetti dei cambiamenti climatici.
È la radiografia del Malpaese, fragile e precario. Terremoti, frane, alluvioni, inquinamento, hanno modificato la geografia della Penisola, a cominciare dal disastro del Vajont nel 1963 con 1.917 morti (fotto sopra in bianco e nero). E continuano a incombere su un Paese a rischio. Gli interventi di ricostruzione, com’è avvenuto da ultimo all’Aquila e nell’Appennino del Centro Italia tra il 2016 e il 2018, sono tardivi e insufficienti (foto sotto). Ma soprattutto si fa troppo poco per evitare le cosiddette calamità naturali, attraverso una costante attività di prevenzione e un’ordinaria manutenzione, in modo da salvaguardare l’assetto idrogeologico e il paesaggio. Più spesso, i disastri sono provocati dall’incuria e dall’assenza di controlli: il crollo del Ponte Morandi, a Genova, ne è una tragica dimostrazione con le sue 43 vittime.
“In Italia – spiega Di Vito – non esiste una legge sulle emergenze: non c’è un piano prestabilito e ogni volta si decide sul momento come bisogna comportarsi”. E aggiunge: “Si stabilisce un modello più o meno realistico e poi si comincia a far di conto per capire che cifra dovrà sborsare lo Stato”. Manca, insomma, una politica del territorio capace di anticipare o quantomeno ridurre l’impatto delle calamità naturali. A questo, s’aggiungono poi le lentezze e le pastoie burocratiche che ostacolano progetti, opere, lavori di ricostruzione.
Racconta ancora il giornalista del manifesto nel suo atto d’accusa: “Se in Abruzzo il potere è stato tutto concentrato nelle mani di un solo uomo (l’allora capo della Protezione civile Guido Bertolaso), nel 2016 il potere è stato diviso in talmente tante parti che ancora oggi risulta impossibile capire con precisione chi debba fare cosa”. Occorrerebbe, dunque, un Testo unico dell’emergenza: cioè una legge che stabilisca, preventivamente in via generale e a seconda del tipo di evento avverso, quali strumenti lo Stato può utilizzare di volta in volta per affrontare le criticità e assistere la popolazione colpita.
Prendiamo il caso dei terremoti. In Italia 22 milioni di cittadini, circa un terzo della popolazione totale, vivono in zone a elevato rischio sismico. Ogni anno si verificano circa cento movimenti tellurici. E storicamente, ogni cinque anni in media si verifica un terremoto che produce gravi danni. Eppure, la gran parte dei nostri immobili si trova in condizioni precarie, senza il rispetto delle norme di sicurezza. Non c’è bisogno, allora, di aspettare il prossimo terremoto per adottare le misure idonee a prevenire o attenuare disastri, crolli e rovine.