Lo Stato contro la Edison Spa per la “discarica dei veleni” di Bussi sul Tirino, in provincia di Pescara, la più grande d’Europa. Il ministero dell’Ambiente ha chiesto all’ex Montedison un miliardo di euro a titolo di risarcimento per i danni provocati dall’azienda a tutta l’area circostante. E ora il caso potrebbe diventare un precedente giudiziario importante nella lotta contro l’inquinamento.
La società, produttrice di energia e sostanze chimiche, è stata accusata di disastro ambientale e avvelenamento delle acque nel territorio circostante. Tra gli anni Sessanta e i primi del Duemila, secondo l’accusa del giudizio penale, ha smaltito 25 ettari di rifiuti tossici e contaminato un bacino idrico che interessa circa 700mila persone. A tutto questo, si aggiunge anche il danno d’immagine chiesto dalla Regione Abruzzo per mezzo miliardo di euro.
Nel corso del processo, dieci dirigenti dell’ex Montedison erano stati condannati in appello, ma poi assolti dalla Corte di Cassazione per la prescrizione del reato e nel caso di quattro di loro per non aver commesso il fatto. Ma ciò nonostante era stata riconosciuta la sussistenza dei reati di inquinamento delle acque e disastro ambientale. Sarebbe ricaduto sullo Stato, quindi, l’onere della bonifica e degli interventi necessari per il risanamento.
In forza del principio comunitario “chi inquina, paga”, il ministero dell’Ambiente ha ripreso però l’iniziativa giudiziaria per evitare che i costi ricadessero sulla collettività. Di rimando, la Edison ritiene “infondata” la richiesta, sostenendo che i responsabili del danno siano “altri soggetti, sia privati che pubblici”. Ora spetterà alla giustizia stabilire chi, come e quanto deve pagare per risarcire i danni ambientali e d’immagine prodotti alla zona interessata.
Cinque anni fa, nel marzo del 2014, fu per primo Giovanni Valentini a denunciare il caso sulle colonne del quotidiano la Repubblica, in seguito all’allarme dei cittadini e alle proteste degli ambientalisti. Ecco alcuni estratti del suo articolo.
“La storia comincia nel 1972, quando l’allora assessore all’Igiene e alla Sanità del Comune di Pescara, Giovanni Contratti, scrive una lettera alla Montecatini Edison, proprietaria dello stabilimento chimico di Bussi, chiedendo di ripulire il sito e adottare misure anti-inquinamento. Da allora, passarono 35 anni prima che la Guardia forestale mettesse nel 2007 i primi sigilli alla discarica “Tre Monti”. Fino ad arrivare ai nostri giorni, con il processo davanti alla Corte d’Assise di Pescara in cui 19 responsabili dell’ex colosso devono rispondere di disastro doloso e avvelenamento delle acque, mentre sono finiti sul registro degli indagati anche otto dirigenti della società francese Solvay che nel 2002 aveva acquistato il polo chimico dall’Ausimont (gruppo Montedison)”.
A quell’epoca, su Repubblica, Valentini riferì che “una prima stima dell’Ispra (Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale) per il ministero della Salute valuta un danno ambientale di 8,5 miliardi di euro e un costo di 500-600 milioni per la bonifica della discarica che al momento appare ricoperta da un “sarcofago”, con un telone impermeabile e sopra un terrapieno di ghiaia, come la tomba di un faraone. Per effetto della legge per il terremoto dell’Aquila, finora ne sono stati stanziati una cinquantina. Ma questi soldi – come precisa il sindaco di Bussi, Salvatore La Gatta – sono destinati alla bonifica e alla reindustrializzazione dello stabilimento che oggi è fermo”.
“Oltre alla discarica “Tre Monti” – proseguiva l’inchiesta di Valentini – a monte del polo industriale se ne trovano altre due, di minore estensione e criticità. Originariamente furono autorizzate per lo stoccaggio degli scarti di produzione, ma poi anch’esse sono state sequestrate dalla magistratura e recentemente risequestrate a causa di una malagestione. Un deposito di veleni, insomma, che continua a inquinare la terra e il sottosuolo in forza di un’antica maledizione chimica che risale alla fine dell’Ottocento. Già allora questo appariva il luogo ideale per localizzare la “nuova industria”, sfruttando la portata dei due fiumi Tirino e Pescara: il primo è stato deviato con un salto di 70 metri e addirittura inglobato nello stabilimento, caso unico in Italia, per produrre energia elettrica e alimentare un impianto di scomposizione elettrolitica del cloruro di sodio da cui si ricavano cloro e soda”.
Qui, durante l’ultimo secolo, lavoravano più di mille operai che sfornavano la formaldeide, il potente disinfettante poi bandito dal mercato perché riconosciuto cancerogeno. E ancora, varechina, perclorati (componenti sbiancanti dei detersivi) e cloruro di ammonio. Nei periodi di guerra, però, dal “paese-fabbrica” di Bussi è uscito perfino l’Yprite, il terribile gas nervino con cui i nostri soldati furono sconfitti a Caporetto e che noi stessi utilizzammo successivamente nella campagna d’occupazione in Africa.
“Nel corso del tempo – concludeva l’articolo di Valentini su Repubblica – gli scarti di queste produzioni, insieme alle acque di scarico che – una volta filtrate – confluivano nei due fiumi, sono stati sparsi sul territorio come il sale a Cartagine. L’operazione di bonifica, quindi, deve comprendere necessariamente il polo chimico e tutta l’area contaminata. E per quanto riguarda in particolare “la discarica dei veleni”, c’è chi dice che è sigillata dallo strato di argilla sottostante e chi invece sostiene – come il presidente regionale di Legambiente, Angelo Di Matteo, geologo – che si tratta di un’argilla porosa, per cui non si può affatto escludere il rischio di inquinamento delle falde freatiche”.