UN PONTE D’ORO: LE AZIONI DEI COSTRUTTORI SONO SALITE DAL 15 AL 30% IN UN ANNO

UN PONTE D’ORO: LE AZIONI DEI COSTRUTTORI SONO SALITE DAL 15 AL 30% IN UN ANNO

Il detto popolare “A nemico che fugge ponti d’oro” è una metafora che suggerisce di lasciare sempre una via di fuga ai nemici, più o meno molesti, in modo da non fargli cambiare idea. Ma nel nostro caso si può ben adattare all’annosa questione che riguarda il controverso progetto per il Ponte sullo Stretto di Messina che dovrebbe unire geograficamente la Sicilia all’Italia. Il paradosso, però, è che quest’opera rischia di diventare letteralmente d’oro per i progettisti e i costruttori anche se alla fine non dovesse essere mai realizzata.

I conti li hanno fatti i due principali quotidiani italiani, il Corriere della Sera e Repubblica, che a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro hanno pubblicato due ampi e documentati servizi.  Il primo l’ha firmato Antonio Fraschilla, il 13 maggio scorso, sul quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, sotto il titolo “Solo progetti ma quotazioni alle stelle, chi già fa cassa sul Ponte che non c’è”. L’altro, intitolato “Ponte sullo Stretto. Gli ostacoli e i rischi”, è apparso sul Corriere del 27 maggio nella rubrica “Dataroom”, a cura di Domenico Affinito e Milena Gabanelli, la popolare giornalista televisiva già autrice e conduttrice di Report su Rai 3.

PONTE (modellino)

“Il Ponte non c’è, ma c’è chi sta guadagnando nell’iter messo in piedi dal governo Meloni che ha resuscitato la vecchia gara e i vecchi privati coinvolti quindi anni fa”, esordisce Fraschilla. E spiega: “Le azioni delle aziende italiane, spagnole e giapponesi dentro il consorzio Eurolink, che senza il decreto Salvini sarebbe oggi su un binario morto, sono cresciute nelle rispettive Borse dal 15 al 30 per cento nell’ultimo anno”. Nella compagine è entrato, intanto, anche l’imprenditore Valter Mainetti, editore del quotidiano Il Foglio.

Il consorzio Eurolink, come si legge più avanti nello stesso articolo di Repubblica, è composto al 45% da Webuild di Pietro Salini, al 18% dalla spagnola Sacyr Construccion, al 15% da Condotte Spa, al 13% dalla Cmc di Ravenna e poi dalla giapponese Ihi Coroporation (6%) e dalla Itinera Spa del Gruppo Gavio (2%). La partecipazione di Condotte è stata rilevata dalla Tiberiade Holding di Mainetti. Da quando è stato approvato il decreto Salvini, per accelerare l’iter dell’opera, il valore delle azioni Webuild nell’ultimo anno sono aumentate del 20%, segnando solo nell’ultimo mese un +30%; la Sacyr è salita del 23% e la Ihi del 15%. Il Ponte-fantasma, insomma, è già un bell’affare per tutti.

Nel frontespizio dell’aggiornamento del progetto, su cui il ministero dell’Ambiente ha chiesto 270 chiarimenti, compaiono poi altre due sigle rilevanti. La prima è la Rocksoil, fondata dall’ex ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi che oggi appartiene al figlio Giuseppe. L’altra sigla è quella della Proger Spa, una società di Pescara che insieme a Rocksoil nel 2023 ha vinto la gara per l’aggiornamento della linea ferroviaria Ferrandina.

Conclude Fraschilla su Repubblica: “Nulla si sa sui contratti interni tra Eurolink e queste società. Anche se rispetti al 2011 c’è una novità: oggi il progetto Ponte è tutto a carico delle casse dello Stato”.

PONTE (rendering)

Nel sommario del loro articolo sul Corriere, Affinito e Gabanelli riassumono: “Stesso operatore e progetto del 2011, ma costi triplicati. Manca l’aggiornamento sismico e su eventi estremi e traffico. Gli espropri su 370 ettari dimezzano i prezzi di case e terreni”. E il resto è una requisitoria, data per data, capitolo per capitolo, contro il Ponte di Salvini.

“Si riparte dunque dal vecchio progetto – scrivono i due autori – bocciato anche dalla commissione di esperti del Mit (Ministero dei Trasporti – ndr) ad aprile 2021. Il problema posto dagli ingegneri è che non esiste ancora la tecnologia per un’infrastruttura di quel tipo a campata unica”: la più lunga al mondo, 3,3 chilometri sospesi in aria, sorretta da due piloni a terra alti 400 metri ciascuno.

In quello stesso anno, le università di Catania e Kiel (Germania) annunciano la scoperta di una faglia attiva di 34,5 chilometri lungo lo Stretto di Messina, fino a quel momento mai mappata, che ha deformato il fondale marino ed è in grado di scatenare terremoti di magnitudo 7,1: il livello massimo sopportabile dalla struttura. Ma l’aggiornamento del progettista non ne tiene conto. Il 24 febbraio 2024 il Comitato scientifico indipendente esprime un parere positivo, a patto però che siano accolte 68 raccomandazioni. E cioè, nuovi approfondimenti sismici, nuove verifiche e previsioni che tengano conto di eventi estremi, una nuova analisi delle correnti marine e dei venti in rapporto a quel tipo di struttura.

Il 15 aprile scorso, come raccontano Affinito e Gabanelli, tocca al ministero dell’Ambiente chiedere ben 239 integrazioni al progetto. Di rincalzo, interviene anche il ministero della Cultura: “Avevamo già segnalato nel 2012 che la documentazione presentata non era esaustiva. Nel frattempo, partono gli espropri dei terreni interessati dal progetto sulla sponda siciliana e su quella calabrese: si stima che siano coinvolti 500 edifici (tra abitazioni e immobili commerciali) e 1500 terreni, su un totale di 370 ettari.

Ma il colpo di scena arriva con lo studio geologico commissionato dal Comune di Villa San Giovanni: sulle mappe catalogate da Ispra nel 2015, individua cinque faglie attive, una delle quali nell’area dove dovrebbe essere impiantato uno dei pilastri. Su quel tipo di terreno, dopo il terremoto dell’Aquila, s’è l’inedificabilità assoluta. E intanto, crollano i valori delle case in tutta la zona, alimentando le proteste della popolazione locale.

PONTE NO

In definitiva, scrivono ancora i due giornalisti del Corriere della Sera, il progetto del Ponte è rimasto quello del 2011. Ma il costo è passato da 3,9 miliardi di euro originari a 13,5. E la direttiva europea del 2014 impone una nuova gara quando l’importo di un’opera aumenta del 50%, anche se nel 2012 quello iniziale era già salito a 8,5 miliardi: nella migliore delle ipotesi, quindi, non si può sforare di un euro. “Il dato certo – concludono – è che il governo Monti aveva chiuso la partita perché le carte non mostravano la sostenibilità finanziaria e le cose non sono cambiate”.

Share this: