Piatti, posate, cannucce, cotton fioc, palette da cocktail, bastoncini dei palloncini, contenitori in polistirolo per alimenti e bevande. Con la direttiva SUP (Single Use Plastic), in vigore dal 3 luglio, l’Europa ha messo al bando la plastica monouso: cioé tutti quei prodotti “usa e getta”, ricavati dal petrolio, che non sono biodegradabili e finiscono nelle discariche o vengono dispersi nell’ambiente, inquinando i fiumi e i mari. Una valanga di rifiuti che spesso si aggregano, fino a formare intere isole galleggianti negli Oceani (vedi foto sotto).
Il fatto è che l’Italia detiene una quota del mercato europeo pari al 60%, con 815 milioni di fatturato all’anno, 280 aziende e 2.780 addetti. A questo, si aggiunge il settore del packaging, vale a dire della carta plastificata, che occupa circa 50mila lavoratori. Da qui, appunto, il tentativo in corso del governo italiano – e in particolare del ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani – per ottenere deroghe e modifiche alle linee guida nell’attuazione della Direttiva, fissata entro il prossimo ottobre.
L’industria italiana sperava che si potessero salvare almeno la produzione di piatti e bicchieri realizzati con bioplastiche biodegradabili, sulla base di materie prime come il mais. Ma questi materiali sono compostabili solo all’interno di impianti adeguati. E al momento, non esiste una raccolta differenziate e un sistema di riciclo delle bioplastiche che richiedono comunque tempi di smaltimento rilevanti, sebbene più brevi. L’unica modifica ipotizzabile nella Direttiva europea, perciò, potrebbe riguardare le stoviglie “usa e getta” in carta plastificata, con una quota di plastica sotto il 10%: tanto più che Francia e Germania, ancora indietro in questo settore, si oppongono alle richieste italiane.
Al di là dei legittimi interessi delle industrie, comunque, l’Europa introduce il principio per cui quello che non serve e fa danni non va prodotto. Ed è un’ulteriore conferma che bisogna uscire definitivamente dalla cosiddetta “economia del petrolio” per passare a quella delle energie alternative, come l’eolico e il fotovoltaico, cioè il vento e il sole. Fino a quando la materia prima resta il petrolio, tutto quello che ne deriva ha un potenziale inquinante e nocivo.
La questione tocca direttamente l’Italia e in particolare l’ENI, ex Ente nazionale idrocarburi, un’azienda dello Stato che invece continua a perforare il terreno e il mare in cerca di petrolio. Non contribuiscono certamente a risolverla le concessioni recentemente assegnate dallo stesso ministero della Transizione ecologica per autorizzare nuove trivellazioni, dall’Alto Adriatico fino al largo della Sicilia. L’ENI può e deve cambiare rotta, per dedicare le sue risorse industriali e produttive allo sviluppo delle energie rinnovabili.
Un discorso analogo, su scala più ridotta, si può fare per le imprese della plastica. Alcune stanno già riconvertendo nel frattempo la loro produzione su piatti e bicchieri in plastica non più “usa e getta”, ma più spessi e resistenti, in modo da poter essere messi nelle lavastoviglie. Altre aziende stanno passando, piuttosto, alla produzione degli imballaggi. Ed è in tale direzione che il governo, in primis il ministero della Transizione ecologica, dovrebbe sostenere e favorire la riconversione industriale, magari con incentivi ad hoc, per difendere le nostre imprese e soprattutto per salvaguardare i livelli di occupazione. Anche in questo campo – come in tanti altri, a cominciare dall’acciaio – non si tratta di rinunciare a produrre, bensì di produrre in modo diverso. È proprio questo il senso dello “sviluppo sostenibile”.