Ci sono città in Europa che farebbero di tutto per avere al loro interno una vera foresta urbana. Pensiamo ad Atene o alla stessa Parigi che posseggono un indice di verde per abitante molto inferiore alla media contiunentale. E ci sono città, come Roma, dove un patrimonio ambientale unico viene lasciato andare in malora. Incastonato tra i Parioli e il quartiere Salario, il parco di Monte Antenne è un “unicum” sia per la sua biodiversità sia per la sua storia.
Da qui provengono gran parte delle donne del leggendario ratto organizzato da Romolo. Gli “antemnati” abitavano il piccolo monte ben prima della nascita di Roma. Ante Amnes stava a significare “davanti ai fiumi”, dove appunto il Tevere e l’Aniene si congiungono. Nel 749 a. C. il primo re di Roma allestisce una grande festa e chiama tutte le popolazioni dal circondario. Gli “antemnati” e i sabini partecipano numerosi, ma si accorgeranno troppo tardi che la festa era una trappola ordita da Romolo per rapire le donne necessarie alla crescita della nuova città. Quello che passerà alla storia come il ratto delle Sabine, dovrebbe essere ribattezzato perciò “il ratto delle Sabine e delle Antemnate”.
I resti di questo popolo furono ritrovati nella seconda metà dell’800 quando il Regno d’Italia decise di costruire sulla sommità del parco, a circa 60 metri d’altezza, uno dei 14 forti di difesa della città di Roma. Durante gli scavi emersero reperti straordinari: pozzi, cisterne, ville e perfino la tomba di un bambino. La scarsa coscienza archeologica dell’epoca e la necessità di concludere in fretta un’opera imponente, cancellarono per sempre il ricordo di questa civiltà. Nacque però una maestosa costruzione di guerra, chiamata Forte Antenne, composta da una grande piazza d’Armi, 160 stanze, magazzini e corridoi. Ma, appena pochi anni dopo, l’avvento dell’aviazione e le nuove tecnologie belliche resero inutile il Forte che venne abbandonato. Nel periodo della seconda guerra mondiale, qui fu ospitato il Reggimento dei radiotelegrafisti; poi nel 1958 il Demanio militare cedette l’edificio al Comune di Roma che ci costruì il primo grande campeggio della città. Ospiterà i visitatori delle Olimpiadi del 1960 e poi rimarrà in funzione fino al 1980. Da allora, sia il Forte sia la zona sono precipitati nell’abbandono.
Negli ultimi 40 anni, il Forte è stato più volte occupato e sgomberato. Prima un campo nomadi, poi alcuni senza tetto che avevano vi avevano installato perfino cucine a gas.
Oggi l’area è immersa in un degrado senza precedenti. La splendida pineta, trascurata per anni, ha sofferto il peso della neve dello scorso febbraio e il Campidoglio ha proceduto a tagliare tantissimi alberi, lasciando sul posto le chiome essiccate. La strada che sale sul monte è costellata di buche e dossi. E il Forte è sbarrato con gli intonaci divorati dalla vegetazione spontanea e il ponte levatoio corroso dalla ruggine.
Le potenzialità di questo posto magico sono infinite. Un resort con magnifici affacci sulla città, oppure un ostello della gioventù o anche un luogo per l’aggregazione e la produzione di cultura. Basta immaginare quanto possa essere suggestiva una mostra allestita in un bosco urbano, all’interno di antiche mura.
Nel corso degli anni, progetti e idee sono rimasti sempre sulla carta: l’Università Luiss avanzò l’ipotesi di farne la propria sede; il Quirinale avrebbe voluto installare qui il quartier generale dei Corazzieri; la Asl aveva proposto un centro per la cura dei malati di Alzheimer. Il costo per il recupero, non solo del Forte ma del parco circostante, è molto elevato e le condizioni generali di Roma fanno fuggire qualsiasi investitore assennato.
Da pochi mesi, il Municipio Roma 2 ha ottenuto dal Campidoglio la gestione dell’edificio. Lo scorso 18 dicembre ha pubblicato un avviso per invitare i soggetti interessati a presentare progetti per il recupero. Entro la fine di giugno le idee pervenute verranno elaborate e a quel punto il Municipio potrebbe assegnare il Forte a uno o più vincitori di un bando pubblico. Ma le probabilità che tutto questo si realizzi sono scarse e l’area sembra condannata a restare incastrata nel tempo.
Filippo Guardascione