Sono oltre quattrocento le Leopoldine da recuperare, splendide case coloniche della Val di Chiana, simbolo della rinascita agricola di quella terra e lascito di un uomo illuminato: il granduca Pietro Leopoldo. Era un freddo ottobre del 1769 quando il granduca arrivò a Bettolle, Acquaviva, Montecchio e altre frazioni che fino ad allora non aveva mai visitato. Si rese conto subito delle condizioni malsane nelle quali vivevano i contadini: case umide, fondamenta fragili, stalle troppo vicine alla cucina e alle camere da letto. Abitazioni prive di acqua dei pozzi e senza aree di stoccaggio per il grano.
Decise così di chiamare i migliori ingegneri toscani e progettò, assieme a loro, un nuovo modello di abitazione: case alte, forti, con tutti i comfort più avanzati per l’epoca. Non era solo una rivoluzione edile, ma soprattutto una riforma sociale. Una prima versione dei diritti del lavoro e della salubrità dei luoghi.
Quelle case presero il nome di Leopoldine, in onore del suo ideatore che aveva, tra l’altro, voluto la bonifica della Val di Chiana per farne uno dei terreni più fertili d’Italia. La tipica Leopoldina doveva essere eretta su muri spessi almeno 50 centimetri, per garantire riparo dal freddo di inverno e dal caldo d’estate. Al piano inferiore le stalle sarebbero state ben separate dal resto dell’abitazione: quella per i muli esposta a nord, perché patiscono il caldo; quella per i cavalli e i buoi esposta a sud per farli crescere più vigorosi. Al primo piano, le camere da letto con una grande cucina al centro, in modo che il calore del focolare potesse riscaldare le zone circostanti. Tutte le aree della casa dovevano essere ben ventilate e intonacate di bianco. Sotto al tetto una colombaia che fungeva anche da isolamento termico. All’esterno l’aia e un patio coperto per i lavori artigianali, mentre le scale dovevano essere sempre riparate dal gelo e dal sole grazie a un’ampia tettoia.
Il granduca Leopoldo di Lorena fu insomma il primo vero “architetto del lavoro” dell’epoca moderna. Tanto che le sue case coloniche sono considerate uno dei primi esempi di “architettura dell’utile”, che si contrapponeva all’effimero del passato. Grazie alla sua riforma edile, come potremmo definirla, la febbre malarica e le altre malattie si dimezzarono in meno di dieci anni.
Ancora oggi, attraversando le splendide colline toscane, punteggiate dai cipressi e dalle ginestre, le Leopoldine restano protagoniste. Alcune sono state trasformate in agriturismi, ristoranti, resort, ma altre – purtroppo la maggioranza – stanno andando in rovina. Da più parti è stato lanciato un appello per il recupero di questo patrimonio storico, simbolo di una cultura contadina che non c’è più. Alla fine del 2016, con un protocollo voluto dalla regione Toscana, dieci comuni si sono impegnati a salvaguardare le costruzioni in condizioni di maggior degrado. Cortona, Montepulciano, Arezzo, Castiglion Fiorentino, Civitella Val di Chiana, Foiano, Marciano della Chiana, Monte San Savino, Torrita e Sinalunga hanno aderito al protocollo, ma finora gli interventi concreti si contano sulle dita di una mano. I fondi comunali scarseggiano, per cui è necessario l’intervento dei privati che devono però rispettare i criteri previsti nel protocollo: in caso di cambio di destinazione, non più del 60% della superficie può essere destinato a uso residenziale, mentre le superfici di eventuali appartamenti ricavati all’interno non dovranno essere inferiori a 100 metri quadri.
Lo scorso 19 gennaio, il consorzio Bonifiche Ferraresi ha annunciato il recupero di 21 incantevoli Leopoldine della Val di Chiana. Si tratta di nuove strutture ricettive e residenziali che si inseriranno nei circuiti del turismo culturale ed eno-gastronomico della Toscana. Oltre alla valorizzazione architettonica, il progetto darà lavoro a quasi un centinaio di persone.
C’è da sperare che su questo esempio altri imprenditori vogliano salvaguardare non solo l’immagine delle valli toscane, ma anche la memoria di un piccola-grande rivoluzione.
Filippo Guardascione
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